SCENA I
- Verona, una piazza
Entrano
MERCUZIO, BENVOLIO, un paggio
e alcuni servi
BENVOLIO
-
Ti prego, buon Mercuzio, andiamo
a casa.
Fa molto caldo oggi, e i Capuleti
sono in giro: dovessimo incontrarli,
non potremo evitare d'azzuffarci.
Il sangue, in questi giorni
di calura,
fa il matto e bolle più
del necessario.
MERCUZIO -
Tu mi somigli a un di quei
compari
che, come sono entrati in
una bettola,
ti sbattono la spada sopra
un tavolo,
gridandole: "Dio voglia,
non sia mai,
ch'abbia a usar di te!";
e poco dopo,
al secondo bicchiere, come
niente,
ci infilzano lo stesso taverniere.
BENVOLIO -
Davvero ch'io somiglio a un
tal compare?
MERCUZIO -
Va', va', che con quel tuo
caratterino,
quando t'arrabbi sei così
focoso
che non ce n'è l'eguale
in tutta Italia:
pronto a farti eccitare dalla
collera,
e andare in collera per eccitarti.
BENVOLIO -
E avanti, poi, che altro?
MERCUZIO -
Che se ad esser così
come sei tu,
foste in due, ci vedremmo
presto privi
d'entrambi perché vi
sopprimereste
l'uno con l'altro. Perché
tu sei uno
che attaccheresti lite con
chiunque,
sol perché la sua barba
ha un pelo in meno o in più
di quella tua;
o con chi fosse intento a
schiacciar nocchie,
perché quello è
il colore dei tuoi occhi.
Qual occhio, fuor che il tuo,
saprebbe scorgere in quello
un pretesto
per questionare e menare la
mani?
La tua testa è stipata
come un uovo
di querele, ed a forza di
litigi
s'è imputridita come
un uovo marcio.
Hai preso a male un povero
cristiano
che tossiva per strada,
col pretesto che quel suo
scarracchiare
svegliava quella bestia del
tuo cane
che dormiva sdraiato sotto
il sole.
E non hai questionato con
quel sarto,
perché portava la sua
giubba nuova
prima di Pasqua? E ancora
con un altro
perché allacciava le
sue scarpe nuove
con vecchie striglie? E adesso
proprio tu
pretendi di venirmi ad insegnare
come fare per non attaccar
briga?
BENVOLIO -
S'io fossi litigioso come
te,
chiunque comprerebbe tutto
il feudo
della mia vita per un'ora
e un quarto
di quella sua.
MERCUZIO
- "Il feudo...".
Oh, sempliciotto!
BENVOLIO -
Per la mia testa, ecco i Capuleti!
MERCUZIO -
Chi se ne frega, per i miei
calcagni!
Entra
TEBALDO con altri
TEBALDO
- (Ai suoi)
Statemi a fianco, che adesso
li affronto.
(A Mercuzio
e Benvolio)
Messeri,
buona sera.
Avrei da dire ad uno di voi
due
una parola.
MERCUZIO -
Una sola? A uno solo?
Evvia, aggiungici qualche
altra cosa...
Facciamo una parola e una
stoccata.
TEBALDO -
E perché no? Sarei
pronto anche a questo
qualora me ne offriste voi
il destro.
MERCUZIO -
Non potresti pigliartelo da
te,
senza aspettare che ti venga
offerto?
TEBALDO -
Mercuzio, tu d'accordo con
Romeo...
MERCUZIO -
"Accordo..." Che!
Siam forse menestrelli?
Bada che a prenderci per menestrelli,
da noi non sentirai che stonature.
(Mostra la spada)
Ecco l'archetto del mio violoncello;
è questo che ti farà
ben ballare.
Sentirai che armonie!
BENVOLIO -
Non qui, però;
qui siamo in pubblico, in
mezzo alla gente.
O si va altrove, in un luogo
appartato,
a ragionar con calma, o separiamoci:
qui tutti gli occhi stanno
su di noi.
MERCUZIO -
Gli occhi furono fatti per
guardare.
Che guàrdino. Da qui
io non mi muovo.
per fare i comodacci di nessuno!
Entra
ROMEO
TEBALDO -
(A Mercuzio, indicando Romeo
che entra)
Sta bene. Pace a voi. Ho qui
il mio uomo.
MERCUZIO -
Il tuo uomo?... Impiccato
vorrei essere,
s'egli porta la stessa tua
livrea!
Scendi in lizza, e vedrai
che lui ti segue:
solo in tal senso vostra signoria,
potrà chiamarlo uno
del suo seguito.
TEBALDO -
Romeo, per il gran bene che
ti voglio,
è il men che possa
dirti: sei un vile!
ROMEO -
Tebaldo, la ragione che io
ho
di voler bene a te mi fa comprimere
in me tutta la rabbia che
v'accende
codesto tuo saluto.
Non son un vile, e perciò
ti saluto.
Ben m'accorgo che tu non mi
conosci.
(Fa per
andarsene)
TEBALDO -
Non è così,
ragazzo,
che ripari le offese che m'hai
fatto.
Torna indietro, perciò,
mano alla spada,
statti in guardia e difenditi!
(Mette mano alla spada)
ROMEO -
(Senza scomporsi)
Ti dichiaro che non t'ho mai
offeso,
anzi, t'aggiungo che mi sei
più caro
di quanto puoi continuare
a credere,
finché non avrai modo
di conoscere
la ragione per cui ti voglio
bene.
E con questo, mio caro Capuleti
- nome ch'io tengo caro come
il mio -
tieniti soddisfatto.
MERCUZIO
- O sommissione,
pacata, mite, ignobile, servile!
Ah, questa lama la cancellerà!
(Snuda
la spada)
Tebaldo,
acchiappasorci,
che ne dici di far due passi
insieme?
TEBALDO -
Che cosa vuoi da me?
MERCUZIO
- Nient'altro, patentato re
dei gatti,
che una sola delle tue nove
vite,
per prendermici qualche libertà;
poi, a seconda che m'avrai
trattato,
provvederò a sfogarmi
e a picchiar sodo
su ciascuna delle otto che
ti restano.
Ti decidi a tirare per gli
orecchi
dal suo guscio peloso quella
spada?
Fa' presto, prima che non
sia la mia
a sibilare ai tuoi.
TEBALDO -
Ai tuoi comandi.
(Estrae
anche lui la spada)
ROMEO -
Mercuzio, caro, metti giù
quell'arma!
MERCUZIO -
(Non badandogli, a Tebaldo)
Forza, messere, il tuo famoso
affondo!
(Si battono)
ROMEO -
Benvolio, snuda, e abbassa
con la tua
le loro spade. Bisogna dividerli.
Signori, andiamo, Tebaldo,
Mercuzio,
per carità, evitate
questo scandalo!
Il Principe ha vietato espressamente
le risse per le vie della
città.
Tebaldo, ferma!...
(Mentre
s'interpone tra i due, Tebaldo,
passando sotto il suo braccio,
colpisce Mercuzio e scappa
con tutti i suoi)
Ohimè,
mio buon Mercuzio!...
MERCUZIO -
Accidenti alle vostre due
famiglie!
Sono ferito... Ohimè,
sono spacciato!
E lui se l'è squagliata?...
Senza niente?...
ROMEO -
Oh, sei ferito bene!...
MERCUZIO -
Solo un graffio...
solo un graffio... ma tanto
quanto basta,
per la Madonna!... Il mio
paggio dov'è?...
Corri, corri, furfante,
vammi a chiamare un medico,
fa' presto.
ROMEO -
Coraggio, la ferita non è
grave.
MERCUZIO -
Oh, no, non è profonda
come un pozzo
né larga come un portale
di chiesa,
ma basterà, non c'è
bisogno d'altro:
domandate di me domani a giorno,
e vi diranno che sono una
tomba.
Sono cotto a dovere e cucinato
per questo mondo, ve lo garantisco.
Accidenti alle vostre due
famiglie!...
Sangue di Cristo, un cane,
un sorcio, un gatto
graffiare a morte un uomo!...
Un fanfarone,
un manigoldo, un fiore di
canaglia
che duella, un-due-tre, col
libro in mano!
(A Romeo)
Tu, per che diavolo ti sei
frapposto?
Il colpo che m'ha inferto
la ferita
è passato al disotto
del tuo braccio.
ROMEO -
Credevo di far bene...
MERCUZIO -
Ahimè, Benvolio,
aiutami ad entrare in qualche
casa,
o verrò meno qui...
Maledizione
alle vostre dannate due famiglie!
Hanno fatto di me carne per
vermi!
La botta ormai l'ho presa,
e pure forte...
Ah, maledette le vostre famiglie!
(Benvolio
esce trascinandosi Mercuzio)
ROMEO -
E così questo fior
di gentiluomo,
un parente assai prossimo
del Principe,
e amico a me assai caro,
s'è buscato quella
mortal ferita
per difendere me... l'onore
mio
macchiato dall'insulto di
Tebaldo...
Tebaldo, che da un'ora è
mio cugino...
Dolce Giulietta! La bellezza
tua
m'ha effeminato al punto da
infiacchire
nel mio petto l'acciaio del
coraggio!
Rientra
BENVOLIO
BENVOLIO -
O Romeo, Romeo, Mercuzio è
morto!
Quel valoroso spirito
che innanzi alla sua ora ha
dispregiato
il mondo di quaggiù,
se n'è volato
a raggiunger le nuvole su
in cielo.
ROMEO -
Sopra ben altri giorni graverà
il nero auspicio annunciato
da questo:
esso è solo l'inizio
di sciagure
cui altri giorni metteranno
fine.
Rientra
TEBALDO
BENVOLIO -
Ecco ancora Tebaldo, furibondo.
ROMEO -
Vivo, trionfante, lui. Mercuzio
ucciso...
Rispettosa mollezza, vola
in cielo!
Ora mia sola guida sia la
furia
dallo sguardo infocato. Ora,
Tebaldo,
ti devi rimangiare quel tuo
"vile"
che m'hai gridato in faccia
poco fa.
L'anima di Mercuzio aleggia
ancora
poco distante sulle nostre
teste,
aspettando che tu vada a raggiungerla.
E adesso, o tu, o io, o tutti
e due,
lo seguiremo.
TEBALDO -
Allora tocca a te,
che gli sei stato compagno
quaggiù,
maledetto ragazzo, di seguirlo.
ROMEO -
(Estraendo la spada)
Lo faremo decidere da questa.
(Si battono.
Tebaldo cade colpito a morte)
BENVOLIO -
Romeo, vattene, scappa!
I cittadini son tutti in subbuglio,
Tebaldo è ucciso! Non
star là impalato!
Il Principe ti condannerà
a morte
se ti prendono. Via, mettiti
in salvo!
ROMEO -
Ah, ch'io son lo zimbello
della sorte!
BENVOLIO -
Che fai, perché traccheggi?
Presto, scappa!
(Romeo
esce di corsa)
Entra una
folla di CITTADINI
1° CITTADINO -
Da che parte è fuggito
l'assassino?
2° CITTADINO -
Tebaldo, l'assassino di Mercuzio!
Dov'è andato?
BENVOLIO -
Tebaldo è là
per terra.
1° CITTADINO -
(Sollevando il corpo di Tebaldo)
Su, signore, devi venir con
me...
per ordine del Principe. Obbedisci.
Entrano
il PRINCIPE col seguito, il
MONTECCHI e il CAPULETO con
le rispettive mogli, ed altri
del seguito
PRINCIPE -
Dove son quei ribaldi istigatori
ch'hanno acceso per primi
questa rissa?
BENVOLIO -
Nobile principe, posso io
scoprirti
tutto lo sciagurato svolgimento
di questa infausta tragica
contesa.
Là vedi steso a terra
l'uomo - ucciso dal giovane
Romeo -,
che aveva prima ucciso il
tuo parente,
il valente Mercuzio.
MONNA CAPULETI -
Ma è Tebaldo!
Tebaldo, mio nipote,
figlio di mio fratello! È
lui!... O Principe!
O nipote! O mio sposo! Ahimè,
versato
è il sangue di quel
mio caro congiunto!
Principe, se sei giusto, al
nostro sangue
devi aggiungere il sangue
dei Montecchi!
Ah, Tebaldo, nipote mio carissimo!
PRINCIPE -
Benvolio, avanti, chi l'ha
incominciata
questa violenta rissa?
BENVOLIO -
Fu Tebaldo,
qui ucciso dalla mano di Romeo;
Romeo gli rispondeva con le
buone,
e l'esortava, anzi, a ben
riflettere
sulla futilità di quella
rissa.
Ma benché tutto ciò
gli fosse detto
con pacatezza, con tranquillo
sguardo
e con ginocchia umilmente
piegate,
non ci fu verso di ridurre
in calma
la scatenata furia di Tebaldo;
sordo a qualsiasi pacifico
accento,
egli sferra, col suo puntuto
acciaio,
un colpo in pieno petto al
buon Mercuzio;
che, non meno infocato,
oppone all'altra la sua punta
mortale
e con marziale piglio di disprezzo,
con una mano svia la fredda
morte,
con l'altra la ricaccia su
Tebaldo,
che riesce a schivarla con
destrezza.
Romeo gridava forte ai contendenti:
"Amici, fermi! Fermi!
Separatevi!"
e l'agile suo braccio, ancor
più rapido
della sua lingua, abbassava
d'un colpo
le fatali lor punte e, con
un salto,
veniva ad interporsi fra quei
due;
e fu proprio a quel punto,
che una brutta stoccata di
Tebaldo,
passata sotto il braccio di
Romeo,
tolse la vita al valido Mercuzio.
Tebaldo, a quella vista, scappa
via,
ma torna subito contro Romeo,
che solo allora prende a vagheggiare
l'idea della vendetta, e come
un lampo,
lì s'avventano l'uno
contro all'altro
sì che ancor prima
ch'io trovassi il tempo
di snudare la spada per dividerli,
l'animoso Tebaldo era già
ucciso;
e, come cade, Romeo fugge
via.
Questa è la pura verità,
signore.
Muoia Benvolio, se non è
così.
MONNA CAPULETI -
Costui è un prossimano
dei Montecchi
e l'affetto gli fa contare
il falso.
Eran, dei loro, almeno una
ventina
a prender parte a questa
sporca rissa,
e tutti e venti insieme a
malapena
son riusciti a far fuori uno
dei nostri.
Io ti domando un atto di giustizia,
Principe, e tu non devi ricusarmelo.
Romeo è l'assassino
di Tebaldo:
Romeo non deve rimanere vivo.
PRINCIPE -
Romeo ha ucciso chi uccise
Mercuzio.
Chi pagherà per questo
caro sangue?
MONTECCHI -
Non già Romeo, però,
ché di Mercuzio, egli
era amico, Principe,
e la sua colpa non ebbe altro
effetto
se non quello cui anche la
tua legge
sarebbe giunta: la morte a
Tebaldo,
come condanna di quel suo
delitto.
PRINCIPE -
Ed è proprio a cagion
di quella colpa,
ch'è una offesa alla
legge dello Stato,
che noi lo condanniamo:
sia bandito da questo nostro
Stato,
con effetto immediato!
Io son ora colpito di persona
dai frutti delle vostre inimicizie,
perché si versa a fiotti
anche il mio sangue
a causa della vostra aspra
contesa.
Ma v'imporrò un'ammenda
sì pesante,
che dovrete pentirvi amaramente
d'avermi procurato una tal
perdita.
Resterò sordo a ragioni
ed a scuse
né varranno preghiere
e piagnistei
a riscattar gli abusi della
legge.
Ve li potete quindi risparmiare.
Che Romeo lasci subito Verona.
Se si farà trovare
ancora qui,
sarà l'ultima ora di
sua vita.
Si porti via, frattanto, quel
cadavere
e s'obbedisca alla volontà
nostra.
La pietà che perdona
agli assassini
si fa assassina anch'essa,
loro correa.
(Escono
tutti)
SCENA II - L'orto dei Capuleti
Entra GIULIETTA
GIULIETTA -
Galoppate veloci, o voi corsieri
dai garretti di fuoco, galoppate
all'alloggio di Febo; un bravo
auriga
come Fetonte avrebbe già
frustato
il vostro ardore a raggiunger
l'occaso,
per ristender più presto
su di noi
il manto della nebulosa notte.
E tu, notte, tu pronuba agli
amori,
ammantaci della tua nera veste,
sì che possan le palpebre
del giorno
chiudersi finalmente sulla
terra
e il mio Romeo possa balzare
qui,
tra le mie braccia, da nessuno
visto,
e da nessuno udito.
Per celebrare i riti dell'amore
gli amanti vedon bene anche
di notte,
illuminati dalla lor bellezza;
perché se è
vero che l'amore è
cieco,
il buio della notte è
il suo elemento.
Scendi, o notte solenne, tu,
matrona
sobria matrona mia nero-vestita,
ad insegnarmi come devo perdere
una partita vinta, la cui
posta
son due verginità incontaminate.
Nascondi sotto il tuo nero
mantello
l'indomabil mio sangue
che sento palpitar sulle mie
guance,
sì che l'amore mio,
fattosi ardito,
e vinto ogni residuo pudore,
veda nell'atto del sincero
amplesso
nient'altro che pudica castità.
Oh, vieni, o notte, e portami
con te
il mio Romeo, giorno della
mia notte,
che spiccherà sulle
tue ali nere
più candido di neve
mo' caduta
sovra il dorso d'un corvo!
Vieni, amorosa ed accigliata
notte,
e dammi il mio Romeo;
e quand'egli morrà,
tu, notte, prendilo
e ritaglialo in mille pezzettini
da farne tante piccole stelline:
farà sì bella
la faccia del cielo,
che tutto il mondo non avrà
più occhi
che per te, notte, e non farà
più omaggio
d'adorazione al risplendente
sole.
Oh, qual ricca dimora dell'amore,
ho io comprato, e ancor non
la possiedo!
Così come, venduta
alla mia volta,
non son goduta da chi mi ha
comprato.
Questa luce del giorno m'è
tediosa
come la notte prima della
festa
al garzoncello ch'ha il vestito
nuovo
ed è tutto impaziente
d'indossarlo...
Oh, ecco finalmente la mia
balia,
con notizie per me; qualunque
bocca
pronunci solo di Romeo il
nome,
parla per me con celestiale
eloquio.
Entra
la NUTRICE con delle corde
Oh, balia,
che notizie?... Che ti porti?
Le corde che Romeo ti mandò
a prendere?
NUTRICE -
Sì, sì, le corde.
(Le butta
a terra con un gesto di disperazione)
GIULIETTA -
Oh, Dio! Ma che notizie?
Perché ti torci le
mani in quel modo?
NUTRICE -
Ah, dannazione! È morto,
è morto, è morto!
Che rovina, Giulietta! Che
rovina!
Ah, giorno maledetto! Se n'è
andato,
ucciso... morto!
GIULIETTA -
Oh, Dio, come può il
cielo
esser così maligno?
NUTRICE -
Il cielo no,
ma Romeo sì... Oh,
Romeo, Romeo!
Chi mai l'avrebbe creduto!
Romeo...
GIULIETTA -
Ma che demonio sei, per torturarmi
in questo modo? Nell'oscuro
inferno
ruggir dovrebbe una tortura
simile!
Romeo che cosa?... Di', s'è
forse ucciso?
Nutrice, dimmi solamente "sì",
e quella nuda sillaba, quel
"sì"
sarà per me veleno
più potente del micidiale
sguardo
del basilisco; io non sarò
più io,
se sarà "sì",
se son chiusi quegli occhi
per cui tu debba rispondermi:"sì".
S'è stato ucciso,
insomma, dimmi "sì",
e se no, dimmi "no":
queste due sillabe
decideran di tutta la mia
gioia
o di tutta la mia disperazione...
NUTRICE -
Ho visto la ferita... Dio
ne scampi!,
con questi occhi, sul suo
robusto petto.
Ah, che impressione!... Quel
povero corpo
insanguinato, livido, cinereo,
tutto un grumo di sangue...
Che pietà!
Sono svenuta...
GIULIETTA -
Ah, spezzati, cuor mio!
Spezzati, misero resto di
me!
In prigione, miei occhi!
Mai più vedrete voi
la libertà!
E tu, mio corpo, che sei terra
vile,
torna alla terra, e là
resta per sempre
a gravar con Romeo d'un solo
peso
la stessa bara!
NUTRICE -
O Tebaldo! Tebaldo!
Il mio migliore amico, il
più cortese,
il più degno, onorato
gentiluomo!
Ohimè, non fossi mai
tanto vissuta
da doverti vedere adesso morto!
GIULIETTA -
Qual mai tempesta è
questa che imperversa
intorno a me con sì
contrari venti?
Trucidato Romeo... Morto Tebaldo...
Il mio cugino, di tutti il
più caro,
e il mio signore, ancor di
lui più caro?
E allora suona, terribile
tromba,
annunzia pure l'ora del Giudizio!
Chi può più
vivere su questa terra,
se ne sono scomparsi questi
due?
NUTRICE -
Morto è solo Tebaldo;
Romeo è stato condannato
al bando.
È stato lui a ucciderlo,
e per questo
è messo al bando.
GIULIETTA -
Oh, Dio Signore!
La mano di Romeo, ha dunque
sparso
il sangue di Tebaldo?
NUTRICE -
Sì, Giulietta,
è stato lui, ah!, giorno
di sventura!
È stato lui!
GIULIETTA -
O cuore di serpente,
nascosto dietro la faccia
d'un fiore!
O bel tiranno! O angelo-demonio!
O nero corvo in piume di colomba!
Lupo famelico in veste d'agnello!
Vil materia in immagine divina!
Tutto il contrario di quello
che sembri!
O Natura, che cosa non puoi
fare
tu dell'inferno, se dai ricettacolo
allo spirito d'uno dei suoi
diavoli
nel paradiso mortale d'un
corpo
così leggiadro!...
Ci fu mai volume
che contenesse tanta vil materia
e che fosse sì bene
rilegato?
Può dunque la perfidia
avere stanza
in così ricca e splendida
dimora?
NUTRICE -
Negli uomini non c'è
più lealtà,
non c'è più
fede, più onestà:
spergiuri
son tutti, ipocriti, falsi,
bugiardi.
(Chiamando il suo servo)
Ah, dov'è Pietro?...
Dammi un po' d'assenzio...
Tutti questi dolori, queste
pene,
queste tribolazioni a non
finire,
mi fanno vecchia. Vergogna
a Romeo!
GIULIETTA -
E a te si secchi in bocca
la linguaccia,
che ha pronunciato questo
malaugurio!
Lui non è nato per
subir vergogna.
La vergogna ha vergogna
d'albergar sul suo viso; quello
è un trono
sul quale può ben coronarsi
Onore
come sovrano dell'intero mondo.
Come ho potuto tanto imbestialirmi
da inveire così contro
di lui!
NUTRICE -
Non vorrai mica metterti a
dir bene
di colui che t'ha ucciso tuo
cugino?
GIULIETTA -
Dovrei forse dir male di colui
ch'è mio marito? Caro
mio signore!
Ah, quale lingua potrà
mai blandire
con tenerezza il nome tuo,
se io
che son tua moglie solo da
tre ore,
l'ho tanto vilipeso?... Ma
perché
hai ucciso, cattivo!, mio
cugino?
Vero è, però,
che quell'altro cattivo
avrebbe ucciso te, che sei
mio sposo!...
E dunque, indietro, indietro,
sciocche lacrime!
Tornate alla nativa vostra
fonte:
le vostre stille son tributo
al duolo,
e voi le offrite adesso per
errore
alla letizia, perché
mio marito,
che Tebaldo voleva ucciso,
vive;
ed è morto Tebaldo,
che lo voleva ucciso. Tutto
questo
Non è per me motivo
di conforto?
Ed allora, perché piangere,
mio cuore?...
Ahimè, c'è una
parola
più amara della morte
di Tebaldo,
che m'uccide. Vorrei cacciarla
via
dalla mente, ma lei ci grava
sopra
come sulle colpevoli coscienze
il rimorso di turpi malefatte.
"Tebaldo è morto
e Romeo è bandito!"
Quel "bandito",
quell'unica parola:
"bandito", val per
me mille Tebaldi,
la cui morte sarebbe, già
da sola,
un dolore bastante; e se il
dolore
trova conforto a non essere
solo,
ed ha bisogno d'accoppiarsi
ad altri,
perché quando la balia
m'annunciò:
"Tibaldo è morto",
non v'aggiunse ancora:
"anche tuo padre",
oppure: "anche tua madre",
o tutti e due? M'avrebbe suscitato
i lamenti che levan tutti
gli altri.
Ma l'annuncio che ha fatto
retroguardia
a quello della morte di Tibaldo:
"Romeo è messo
al bando"... quella frase,
a pronunciarla li racchiude
tutti,
padre, madre, Tebaldo, me,
Romeo,
assassinati tutti, tutti morti!
"Romeo bandito..."
No, non c'è confine
né limite, né
fine, né misura
nella morte ch'è in
questa sola frase;
né c'è frase
che suoni più funerea.
Dov'è mio padre, Nutrice?
E mia madre?
NUTRICE -
Tutti e due a levare alti
lamenti
sul corpo di Tebaldo.
Vuoi andare da loro? T'accompagno.
GIULIETTA -
Lavino essi, con le loro lacrime,
le sue ferite; verserò
le mie,
quando le loro si saran seccate,
per piangere l'esilio di Romeo.
Raccogli quelle corde...
Poverette!
Siete state ingannate come
me!
Perché Romeo, proscritto,
se ne va.
Voleva far di voi la via maestra
al mio letto di sposa;
ma io morirò vergine,
e vedova...
Venite, corde, ed anche tu,
Nutrice:
io m'incammino al mio letto
di sposa
dove a coglier la mia verginità
più non sarà
Romeo, bensì la Morte.
NUTRICE -
Va' sola, affrettati in camera
tua;
troverò io Romeo, per
confortarti.
So dov'egli si trova. Ascolta
bene:
il tuo Romeo stanotte sarà
qui.
Sta nella cella di Frate Lorenzo,
nascosto. Vado subito da lui.
GIULIETTA -
Oh, trovalo! Consegna quest'anello
al mio fido e devoto cavaliere,
e digli di venir subito qui,
a prendersi da me l'ultimo
addio.
(Escono)
SCENA III - La cella di Frate
Lorenzo
Entra FRATE LORENZO, poi
ROMEO
FRATE LORENZO -
Vieni fuori, Romeo, su, vieni
fuori,
timoroso ragazzo: l'afflizione
s'è innamorata della
tua persona,
e tu ti sei sposata la sventura.
ROMEO -
(Uscendo da una segreta)
Che nuove, padre? Che ha deciso
il Principe?
Qual dolore, ch'io non conosca
ancora,
brama venire a stringermi
la mano?
FRATE LORENZO -
Troppo usato a sì amara
compagnia
è il mio caro figliolo.
Ti riporto il decreto di condanna
pronunciato a tuo carico dal
Principe.
ROMEO -
E di quanto è più
mite, tal condanna,
di quella del Giudizio Universale?
FRATE LORENZO -
Un più mite giudizio,
in verità,
è scaturito per te
dal suo labbro:
non la morte del corpo, ma
il suo bando.
ROMEO -
Ah, il bando!... Per pietà,
chiamalo "Morte"!
C'è più terrore
nel volto del bando
che in quello della morte.
Non dir "bando",
perciò, di' pure "morte"!
FRATE LORENZO -
Sei soltanto bandito da Verona.
Fattene una ragione: il mondo
è grande!
ROMEO -
Non c'è mondo per me,
Frate Lorenzo,
aldilà delle mura di
Verona:
c'è solo purgatorio,
c'è tortura,
lo stesso inferno; bandito
da qui,
è come fossi bandito
dal mondo;
e l'esilio dal mondo vuol
dir morte.
E quindi dire "esilio"
è dire "morte",
con altro termine, falso ed
improprio;
e tu, a chiamar esilio la
mia morte,
mi mozzi il capo con un'ascia
d'oro,
e sorridi del colpo che m'uccide.
FRATE LORENZO -
O peccato mortale!
O vile, grossolana ingratitudine!
La nostra legge commina la
morte
pel tuo delitto, e il Principe,
benevolo,
prende amorevolmente la tua
parte,
getta la legge in un canto,
e converte
la macabra parola "morte"
in "bando",
e tu non sei capace d'apprezzare
questo prezioso gesto di clemenza!
ROMEO -
Questa per me è tortura,
non clemenza!
Il paradiso è qui,
dov'è Giulietta;
ed ogni cane, gatto, topo,
tutto,
anche la cosa più insignificante,
tutto qui vive in cielo, in
paradiso,
perché può gettar
gli occhi su di lei,
mentre Romeo non può.
C'è più riguardo,
dignitoso rispetto, cortesia,
per la mosca che infesta una
carogna,
che per Romeo; la mosca può
posarsi
su quella meraviglia di candore
ch'è la preziosa mano
di Giulietta,
e rubarsi una gioia celestiale
solo a posarsi sovra quelle
labbra
che nel loro candore di vestale
arrossiscono come d'un peccato
dei loro baci, e Romeo non
lo può;
le mosche sì, perch'esse
sono libere,
lui no, perché è
bandito!
E tu ti ostini a dire che
l'esilio
non è per me la morte?
Non hai tu qui un infuso di
veleni,
un coltello affilato o un
altro mezzo
che procuri una morte repentina,
ma non sì ignominiosa,
per uccidermi,
anziché dirmi ch'ero
messo al bando?
"Bandito": frate,
questa è una parola
che adoprano i dannati dell'inferno,
e la riecheggia un urlo di
dolore.
Come hai potuto sentirti il
coraggio,
essendo un sacerdote, un confessore,
uno che assolve gli altri
dal peccato,
e che pur si professa amico
mio,
di torturarmi con quella parola?
FRATE LORENZO -
Stolto e pazzo che sei, stammi
a sentire.
ROMEO -
Che! Sentirti parlare ancor
d'esilio?
FRATE LORENZO -
No, voglio offrirti invece
una corazza
che ti difenda da quella parola:
il dolce latte dell'avversità,
quella filosofia che dà
conforto
anche a chi va bandito, come
te.
ROMEO -
E dagli col "bandito"!
Alla malora!
Che s'impicchi, la tua filosofia!
A meno che la tua filosofia
non sappia ricrearmi una Giulietta,
o sappia trapiantare una città,
o revocare l'editto del Principe,
non serve a nulla, non parlarne
più!
FRATE LORENZO -
Vedo bene che i pazzi
non hanno proprio orecchi
per intendere.
ROMEO -
E come lo potrebbero, se i
savi
non hanno proprio occhi per
vedere?
FRATE LORENZO -
Parliamo insieme della situazione.
ROMEO -
Che vuoi parlare, di ciò
che non senti!
Fossi tu giovane ed innamorato,
come me, di Giulietta, a lei
sposato
solo da un'ora, e avessi ucciso
tu
Tebaldo, e fossi stato tu
bandito
pazzo d'amore, da questa Verona,
allora sì, che potresti
parlare,
e strapparti i capelli disperato,
e gettarti per terra, ecco
così,
per prender la misura della
fossa,
che vorresti scavare.
(Si getta
a terra. Bussano alla porta)
FRATE LORENZO -
Alzati, via!
Qualcuno bussa. Buon Romeo,
nasconditi.
(Romeo
rimane disteso a terra)
ROMEO -
No, salvo che i sospiri del
mio cuore
non mi nascondano, come una
nebbia,
agli sguardi di quelli che
mi cercano.
(Bussano
ancora)
FRATE LORENZO -
Senti, bussano ancora... Chi
va là?
Alzati, su, Romeo! Ti prenderanno.
(Bussano
ancora)
Un momento!...
(A Romeo)
Su, corri nel mio studio...
(Rispondendo
a chi bussa)
Eccomi,
vengo!... Mio Dio, che pazzia!...
(Bussano
ancora)
Vengo,
vengo... Chi bussa così
forte?
Chi siete? Che cercate? Chi
vi manda?
NUTRICE -
(Da dentro)
Aprite, finalmente, e lo saprete!
Vengo da parte di Monna Giulietta.
FRATE LORENZO -
Ah, benvenuta, allora!
(Apre la
porta)
Entra la
NUTRICE
NUTRICE -
Padre santo,
ditemi, frate santo, dove
sta
il signore della mia padroncina?
Dov'è Romeo?
FRATE LORENZO -
Eccolo là, per terra,
ubriaco delle sue stesse lacrime.
NUTRICE -
Come la mia bambina: tale
e quale,
anche lui nelle stesse condizioni.
O qual pietosa simpatia di
pena!
O caso miserando! Lei, lo
stesso,
così piangendo, così
singhiozzando,
singhiozzando e piangendo...
(A Romeo)
Ma su, alzatevi,
alzatevi, suvvia, se siete
un uomo!
Per amor di Giulietta, ritto
in piedi!
Perché dovete abbandonarvi
entrambi
ad un sì disperato
abbattimento?
ROMEO -
Nutrice...
NUTRICE -
Andiamo, andiamo, signor mio,
solo la morte è la
fine di tutto.
ROMEO -
Parlavi di Giulietta... Come
sta?
Non mi crede ella un famoso
assassino,
pensando che ho potuto insudiciare,
ora, l'infanzia della nostra
gioia
con un sangue ch'è
anche un poco il suo?...
Dov'è? Che fa la mia
sposa segreta?
Che dice di un così
stroncato amore?
NUTRICE -
Oh, lei non dice nulla, monsignore;
non fa altro che piangere
e poi piangere;
e si butta sul letto, e si
rialza,
ora chiama Tebaldo, ora Romeo,
e piange, e si ributta giù
di nuovo.
ROMEO -
Come se quel mio nome,
sparato dalla bocca d'un cannone
l'avesse uccisa, alla stessa
maniera
che la dannata mano di quel
nome
ha ucciso suo cugino... Dimmi,
frate,
in qual dannata parte del
mio corpo
questo mio nome sta di casa?
Dimmelo,
sì ch'io possa distruggere,
annientare
quell'odiosa dimora...
(Trae la
spada e fa per uccidersi,
il Frate gli trattiene il
braccio)
FRATE LORENZO -
Fermo! Fermo!
Trattieni quella mano disperata!
Sei tu un uomo? La tua forma
esteriore
proclama che lo sei, ma le
tue lacrime
sono di femminuccia,
e codesti tuoi atti da selvaggio
sono la furia matta d'una
bestia.
Femmina sei, sotto sembianza
d'uomo!
Bestia in sembianza dell'una
e dell'altro!
M'hai deluso. Per il mio sacro
ordine,
tu m'hai deluso. Sul mio sacro
ordine
ti giuro che credevo fosse
in te
più salda tempra. Hai
ucciso Tebaldo?
E adesso vuoi finirla con
te stesso,
e uccidere colei ch'è
la tua sposa
e vive solo perché
vivi tu,
compiendo un gesto d'odio
su di te,
che ti darebbe eterna dannazione?
Perché ruggire di disperazione
sul tuo nome, sul cielo, sulla
terra?
Se nome e cielo e terra,
si son composti in te in un
sol momento,
dalla nascita, tu in un sol
momento
vorresti perderli? Eh, via,
vergognati!
Tu fai torto alla bella tua
persona,
al tuo amore, al tuo senno,
al tuo giudizio,
perché di questi doni,
onde sei ricco,
tu, come un usuraio, non ti
servi
nella maniera che t'abbellirebbe
e l'aspetto, e lo spirito,
e l'amore.
Il nobil tratto della tua
persona
non è più d'un'immagine
di cera
se dissociato dalle qualità
che fanno l'uomo. Il tuo voto
d'amore
non è più d'un
inutile spergiuro
se l'amore giurato tu l'uccidi.
L'ingegno di cui certo sei
dotato
e che ti fa degno ornamento
al corpo
e all'interno sentire, male
usato,
e dall'uno e dall'altro ha
preso fuoco,
come la polvere della fiaschetta
d'un marmittone alle sue prime
armi,
dalla miccia della tua maldestrezza
e tu ti sei lasciato dilaniare
dall'arma stessa ch'era a
tua difesa.
Su, uomo, alzati! La tua Giulietta,
per amor della quale poco
fa
eri quasi sul punto di morire,
è viva, e questo può
farti felice.
Tebaldo, è vero, ti
voleva uccidere,
ma è vero pure che
tu l'hai ucciso;
ed anche in ciò puoi
dirti fortunato.
La legge, che poteva darti
morte,
ti si è mostrata amica,
e ha convertito in temporaneo
esilio
la tua morte e puoi esserne
contento.
Sta piovendo, in sostanza,
sul tuo capo
una pioggia di benedizioni.
Fortuna, come vedi, ti corteggia,
nel suo più dovizioso
abbigliamento,
e tu, come una rozza villanella,
screanzata e scontrosa, arricci
il naso
col broncio, alla fortuna
ed all'amore.
Bada, Romeo, che chi fa come
te
finisce male. Va', dall'amor
tuo,
come d'accordo, sali alla
sua camera,
ed effondile tutto il tuo
conforto.
Cerca soltanto di non trattenerti
oltre l'orario in cui passa
la ronda,
o non saprai più uscire
di città
per prendere la strada verso
Mantova;
è là che fisserai
la tua dimora,
finché non troveremo
il buon momento
per render pubblico il tuo
matrimonio,
implorare dal Principe il
perdono,
riconciliarti con i tuoi nemici,
e farti richiamare dall'esilio
con un corteggio di felicità
mille doppi più grande
del dolore
ch'oggi accompagna questa
tua partenza.
Tu va' avanti, Nutrice.
Saluta a nome mio la tua padrona
e raccomandale che questa
notte
mandi a letto più presto
i suoi famigli,
che, del resto, vi saran ben
disposti
coi dispiaceri che tutti han
sofferto.
Romeo ti seguirà.
NUTRICE -
Signore Iddio,
sarei rimasta qui tutta la
notte
ad ascoltar tanto saggio parlare...
Eh, l'istruzione, che gran
bella cosa!
(A Romeo)
Signore, annuncerò
alla padroncina
che state per venire.
ROMEO -
Brava, sì.
E dille ancora, alla dolcezza
mia,
che si prepari a farmi un
gran rabbuffo.
NUTRICE -
(Gli dà l'anello di
Giulietta)
Ecco, signore, vi do quest'anello,
ch'ella m'ha detto di darvi,
signore.
Ma sbrigatevi, che si fa assai
tardi!
(Esce)
ROMEO -
Oh, questo dono mi ravviva
in cuore
un senso di conforto e di
speranza!
FRATE LORENZO -
Va', ora, buona notte; attendi
bene
però che la tua sorte
è a ciò legata:
o riesci ad uscir dalla città
prima dell'ora che monti la
guardia,
o parti al far del giorno,
travestito.
Starai a Mantova. Di tanto
in tanto
io prenderò contatto
col tuo servo
sì ch'egli possa tenerti
informato
se qui accada qualcosa in
tuo favore.
Dammi la mano. È tardi.
Stammi bene.
ROMEO -
Se il richiamo d'una suprema
gioia
non mi spingesse prepotentemente
a lasciarti, sarebbe gran
dolore
accomiatarmi da te così
in fretta,
Frate Lorenzo. Addio.
(Escono)
SCENA IV - Stanza in casa
Capuleti
Entrano CAPULETO, MONNA CAPULETI
e PARIDE
CAPULETO -
Che volete, signore, qui le
cose
sono corse così sinistramente,
che non abbiamo avuto proprio
il tempo
di dirne una parola a nostra
figlia.
Vi dirò: era molto
affezionata
al cugino Tebaldo, come anch'io.
Purtroppo, siamo nati per
morire...
È molto tardi, ormai.
Non scenderà.
Non fosse che per trattenermi
qui con voi,
anch'io starei da una buon'ora
a letto.
PARIDE -
Capisco. Son momenti di cordoglio,
non certo adatti a discorsi
di nozze.
Madonna, buona notte;
e ricordatemi alla vostra
figlia.
MONNA CAPULETI -
Lo farò; e domani di
buon'ora
saprò come la pensa;
stanotte è tutta immersa
nel dolore.
CAPULETO -
Comunque posso anticiparvi
io stesso,
signor Paride, la formale
offerta
dell'amor suo, sicuro come
sono
ch'ella si lascerà
guidar da me
sotto tutti gli aspetti. Intanto,
moglie,
prima di coricarti, va' da
lei
ed informala della profferta
d'amore fatta da mio figlio
Paride,
ed avvertila - stammi bene
attenta -
che mercoldì venturo...
No, un momento:
che giorno è oggi?
PARIDE -
Lunedì, signore.
CAPULETO -
Lunedì... lunedì...
vediamo un po'...
No, allora è troppo
presto. Giovedì.
Le dirai dunque che giovedì
prossimo
ella andrà sposa a
questo nobil conte.
(A Paride)
Sarete
pronto, voi?
Non vi torna gradita questa
fretta?
Gran festa non faremo: uno-due
amici,
una cosa fra noi, in gran
riserbo;
perché, vedete, essendo
sì recente
la morte di Tebaldo, mio nipote,
si potrebbe pensare dalla
gente
che non ce ne importasse,
se ci dessimo
ad una festa troppo rumorosa.
Una mezza dozzina d'invitati,
ed è tutto. Ma voi
che ne pensate
di giovedì venturo?
Vi sta bene?
PARIDE -
Vorrei che giovedì
fosse domani,
mio signore.
CAPULETO -
D'accordo. Andate pure.
Allora siamo intesi: giovedì.
Intanto, tu, prima d'andare
a letto,
moglie, va' da Giulietta,
a prepararla
per questo giorno del suo
matrimonio.
Di nuovo, arrivederci, monsignore!
(Gridando
alla servitù)
Fatemi
luce fino alla mia camera,
avanti a me, così...
È così tardi
che fra poco potremo dir che
è presto!
(Esce)
SCENA V - L'orto dei Capuleti
ROMEO e GIULIETTA sono in
alto, sul balcone
GIULIETTA -
Vuoi già partire? L'alba
è ancor lontana.
Era dell'usignolo,
non dell'allodola, il
cinguettio
che ha ferito poc'anzi il
trepidante
cavo del tuo orecchio. Un
usignolo,
credimi, amore; è lui
che canta, a notte,
laggiù sull'albero
di melograno.
ROMEO -
No, cara, era l'araldo del
mattino,
l'allodola; non era l'usignolo.
Guarda, amor mio, quante strisce
di luce
maligne sfrangiano le rade
nuvole
che si dissolvono laggiù
all'oriente.
Le faci della notte sono spente
e già s'affaccia il
luminoso giorno,
quasi in punta di piedi,
sugli alti picchi brumosi
dei monti.
Debbo andarmene e seguitare
a vivere,
o restare e morire.
GIULIETTA -
Quel barlume laggiù
non è ancora la luce
del mattino.
Io la conosco bene: è
una meteora
che il sole irradia e rende
luminosa
perché ti sia torciere
questa notte
a illuminarti la strada per
Mantova.
E però resta. Non devi
partire.
ROMEO -
Oh, che m'arrestino pure,
m'uccidano!
S'è così che
tu vuoi, io son felice!
Son pronto a dir con te che
quel grigiore
laggiù non è
lo sguardo del mattino,
ma soltanto un riflesso smorto
e pallido
della faccia di Cinzia;
e a negare con te che sia
l'allodola,
a martellar gli archivolti
del cielo
con le sue note, sopra il
nostro capo.
L'ansia di rimanere
è più forte
di quella di partire.
O morte, vieni, e sii la benvenuta!
Così vuole Giulietta,
e così sia!
Sei soddisfatta adesso, anima
mia?
Parliamo pure. Non è
ancora giorno.
GIULIETTA -
È giorno, invece, è
giorno! Ahimè, fa'
presto!
Va'! È l'allodola quella
che canta,
ora, con quel suo verso fuori
tono,
sforzandolo con aspre dissonanze.
Dicono che l'allodola
sa modulare in dolci variazioni
le note del suo canto; questa
no,
perché in luogo di
dividere le note
in armonia, divide noi.
L'allodola,
dicono pure, ha scambiato
i suoi occhi,
col ripugnante rospo.
Che si siano scambiate anche
le voci?
Perché questa, che
va destando il giorno,
ci strappa trepidanti dalle
braccia
l'uno dell'altro, e mi ti
porta via.
Vattene, va', si fa sempre
più chiaro.
ROMEO -
Sempre più chiaro in
cielo,
sempre più buio dentro
i nostri cuori.
Entra la
NUTRICE, affacciandosi e subito
ritirandosi
NUTRICE -
Madonna.
GIULIETTA -
Sì?
NUTRICE -
La signora tua madre
sta venendo di qua, nella
tua stanza.
È giorno. Sii prudente.
Fa' attenzione.
GIULIETTA -
E tu, balcone, lascia entrare
il giorno,
e uscire la mia vita.
ROMEO -
Addio! Addio!
Ancora un ultimo bacio, e
poi scendo.
(Si baciano.
Romeo scende)
GIULIETTA -
E così te ne vai, amore
mio,
mio signore, mio sposo, mio
amico,
mio tutto! Voglio avere tue
notizie
ogni giorno dell'ora, sì,
dell'ora,
ci sono molti giorni in un
minuto...
Ahimè, a contare il
tempo in questo modo,
chi sa quanti anni avrò
prima di rivedere il mio Romeo!
ROMEO -
Amore, addio! Non perderò
occasione,
che ti possa recare il mio
saluto.
GIULIETTA -
Oh, pensi che ci rivedremo
ancora?
ROMEO -
Ne son sicuro. E tutte queste
pene
ci serviranno allora da argomento
per dolci conversari.
GIULIETTA -
Oh, Dio! Romeo,
quale triste presagio ho in
fondo all'anima!
A vederti là in basso,
ho l'impressione come di vederti
al fondo d'un sepolcro...
O m'inganna la vista, o tu
sei pallido.
ROMEO -
E pallida tu appari agli occhi
miei,
amore mio. Quest'amarezza
acerba
si beve il nostro sangue.
Addio! Addio!
(Esce)
GIULIETTA -
O Fortuna, Fortuna!
Se incostante tu sei, come
ti dicono,
che può importare a
te del mio Romeo,
che a tutti è noto
per la sua costanza?
Ma tu mantieniti sempre incostante,
Fortuna, così ch'io
possa sperare
che non lo terrai teco troppo
a lungo,
e presto lo rimanderai da
me.
MONNA CAPULETI -
(Da dentro)
Ehi, oh, figliola... Sei ancora
in piedi?
GIULIETTA -
Chi mi chiama? La mia signora
madre?
E non ancora a letto, così
tardi?
Oppure s'è già
alzata... Così presto?
Che insolita ragione dovrà
avere
per venire da me a quest'ora
insolita?
Entra MONNA
CAPULETI
MONNA CAPULETI -
Ebbene, come va ora Giulietta?
GIULIETTA -
Non molto bene, direi, madre
mia.
MONNA CAPULETI -
Piangi ancora per tuo cugino
morto?
Non crederai di trarlo dalla
tomba
con le tue lacrime; e se pure
fosse,
mai lo potresti richiamare
in vita.
E dunque, datti pace, figlia
mia!
Il duolo è segno di
profondo affetto
se contenuto; ma quando è
eccessivo,
mostra piuttosto poca forza
d'animo.
GIULIETTA -
Lasciate tuttavia ch'io possa
piangere
per una perdita tanto sentita.
MONNA CAPULETI -
Così facendo sentirai
la perdita,
non l'amico perduto per cui
piangi.
GIULIETTA -
Se sento tanto l'amico perduto,
io non posso che piangerlo
per sempre.
MONNA CAPULETI -
Ma tu non piangi tanto, figlia
mia,
per la sua morte, quanto perché
sai
ch'è ancora vivo il
vile che l'ha ucciso.
GIULIETTA -
Di che vile parlate?
MONNA CAPULETI -
Di Romeo.
GIULIETTA -
Fra un vile e lui ci corron
molte miglia.
Dio gli perdoni! Io l'ho perdonato
con tutto il cuore; eppure
non c'è uomo
che mi laceri il cuore più
di lui.
MONNA CAPULETI -
Perché sai che quell'empio
traditore
è ancora in vita.
GIULIETTA -
È vero, madre mia,
ed anche perché so
che è ben lontano
dalla portata di queste mie
mani.
Oh, potess'io da sola vendicare,
a modo mio, la morte di Tebaldo!
MONNA CAPULETI -
Vendicarci sapremo, non temere;
perciò non piangere,
non c'è ragione.
Da una persona che risiede
a Mantova,
dove quel rinnegato vive al
bando,
gli farò preparare
una pozione
così inconsueta da
spedirlo subito
a tener compagnia al tuo Tebaldo.
E così spero sarai
soddisfatta.
GIULIETTA -
Ah, soddisfatta non lo sarò
mai
con Romeo, fino a che non
l'avrò visto...
morto, tanto il mio cuore
è torturato
per un parente. Se voi,
madre mia,
riusciste a trovare la persona
che sia disposta a portargli
il veleno,
io stessa penserei a prepararlo,
sì che tosto che l'abbia
trangugiato,
Romeo si possa addormentare
in pace.
Oh, quanto non ripugna a questo
cuore
udirne solo pronunciare il
nome
e non poter far nulla per
raggiungerlo,
a sfogare l'amor per mio cugino
sul corpo di colui che me
l'ha ucciso!
MONNA CAPULETI -
Tu trova i mezzi, e io troverò
l'uomo.
Ora però son qui, ragazza
mia,
per darti più piacevoli
notizie.
GIULIETTA -
E ben venga il piacere, madre
mia,
in un momento triste come
questo!
Che notizie, di grazia, mia
signora?
MONNA CAPULETI -
Dunque, dunque..., bambina,
tu hai un padre tanto premuroso
che a sollevarti dalla tua
tristezza,
t'ha preparato così,
all'improvviso,
una giornata di felicità,
che non t'aspetti, e che nemmeno
io stessa
avevo mai saputo prevedere.
GIULIETTA -
Viene proprio a buon punto.
Che giornata?
MONNA CAPULETI -
Ecco, figliola: questo giovedì,
di buon mattino, il giovin
conte Paride,
quel degno, valoroso gentiluomo,
sarà felice di farti
sua sposa
nella cappella di San Pietro...
GIULIETTA -
Ah, no!
Per la sacra cappella di San
Pietro,
per lo stesso San Pietro,
non può essere
ch'ei possa farmi là
sposa felice!
Ma non capisco tutta questa
fretta:
ch'io debba maritarmi prima
ancora
che colui che dev'esser mio
marito
sia mai venuto a parlarmi
d'amore!
Vi prego, ditelo al mio signor
padre:
io di sposarmi non ho alcuna
voglia,
e che quando l'avrò,
giuro, sarà magari
con Romeo,
che pur sapete quanto lo aborrisca,
piuttosto che con Paride...
Bella notizia, m'avete recata!
Entra il
vecchio CAPULETI con la NUTRICE
CAPULETO -
Quando tramonta il sole,
la terra stilla lacrime di
guazza;
ma piove a catinelle,
per il tramonto del povero
figlio
di mio cognato! E che,
ragazza mia!
Saresti diventata una grondaia?
Ancora sciolta in lacrime
così?
In quella tua minuta personcina
mi pare di veder raffigurati
una barca, con mare e vento
insieme:
negli occhi, che potrei chiamare
il mare,
c'è il flusso ed il
riflusso delle lacrime;
il tuo corpo è la barca,
veleggiante su e giù
per l'onda salsa,
i tuoi sospiri il vento
che si scontra infuriato con
le lacrime,
e queste a loro volta con
il vento.
Se qui non interviene una
bonaccia,
la tempesta ti travolgerà
tutta...
Ebbene, moglie mia, l'hai
messa a parte
di quanto abbiamo deciso per
lei?
MONNA CAPULETI -
Sì, signore, l'ho fatto.
Ti ringrazia, ma non ne vuol
sapere.
Finirà per sposare
la sua tomba,
la sciocchina!
CAPULETO -
Un momento. Dammi il tempo.
Il tempo di capire, moglie
mia!
Come sarebbe: "Non ne
vuol sapere"?
E non ci dice grazie?
La nostra scelta non la inorgoglisce?
Dovrebbe reputarsi fortunata,
indegna e immeritevole com'è,
che riusciamo a darle per
marito
un sì nobile e degno
cavaliere!
GIULIETTA -
Inorgoglirmi della vostra
scelta,
no, ma mi sento a voi riconoscente
d'averlo fatto. Sentirmi orgogliosa
di qualcosa che aborro, non
potrei;
per quanto possa riuscirmi
grata
qualcosa che, se pur da me
aborrita,
mi vien comunque fatta per
amore.
CAPULETO -
Perbacco, che sofismi, santerella!
Che vuol dire "orgogliosa
sì e no",
"vi sono grata"
e "non vi sono grata"?...
Cocchina mia, risparmiati
i tuoi "grazie"
e conserva per te le tue superbie;
pensa a tenere in forma i
tuoi garretti
che ti conducano al fianco
di Paride
difilato alla chiesa di San
Pietro,
o ti ci traggo io sopra un
graticcio.
Vattene via, clorotica carogna!
Fuori, donnucola faccia-di-sego!
MONNA CAPULETI -
Evvia! Non sarai mica uscito
matto?
GIULIETTA -
Padre mio, ve ne supplico
in ginocchio,
ascoltatemi senza spazientirvi,
mentre vi dico solo una parola.
CAPULETO -
Impiccati, piuttosto, sgualdrinella!
Sciagurata ribelle!... Ascolta
bene:
o tu ti rechi in chiesa giovedì,
o non mi comparire più
davanti!
E basta, non parlare, non
discutere,
che già mi sento prudere
le mani!
E noi che abbiam creduto,
moglie mia,
d'essere stati poco favoriti
dalla grazia di Dio,
perché ci ha dato solo
questa figlia!...
Ora m'accorgo come anche quest'una
ci sia di troppo, e che l'averla
avuta
sia stata solo una maledizione!
Che si tolga dai piedi, miserabile!
NUTRICE -
La benedica invece Dio ch'è
in cielo!
Avete torto a trattarla così,
signore mio.
CAPULETO -
Oh, eccola anche lei,
Donna Saggezza! Tien la lingua
a posto,
tu, Madama Prudenza,
o vattene a ciarlar con le
comari!
NUTRICE -
Gesummaria, che avrò
detto di male?
CAPULETO -
Che Dio ti danni!
NUTRICE -
Non si può parlare?
CAPULETO -
Devi star zitta, sciocca borbottona.
Vattene a sciorinar le tue
sentenze
con le comari, tra un bicchiere
e l'altro,
all'osteria. Qui non ce n'è
bisogno.
MONNA CAPULETI -
Mi pare che ti stai scaldando
troppo.
CAPULETO -
Ma ci esco pazzo, per la Santa
Pisside!
Il mio solo pensiero, giorno
e notte,
ogni ora ed ogni istante,
nel lavoro,
nel gioco, sempre, solo, in
compagnia,
è stato di vederla
maritata;
ed ora che le abbiamo procurato
un signore di nobile prosapia,
bene in sostanze, giovane,
educato,
di maniere squisite e, come
dicono,
imbottito d'eccelse qualità,
quante si possano desiderare
in un uomo, la povera sciocchina
che non è buona ad
altro che a frignare,
questa piagnucolosa bamboccetta,
cui la fortuna reca questo
dono,
risponde: "Non ho voglia
di sposarmi",
"Io
non so amare", "Sono
troppo giovane",
"Vi prego di scusarmi"...
e via di seguito!
Sì, sì, vedrai
come saprò scusarti
se mi ricuserai questo partito!
A brucar l'erba andrai, dove
ti pare,
a casa mia tu non ci resti
più.
Pensaci: non son solito scherzare.
Pensaci: giovedì non
è lontano.
Mano sul cuore, medita e rifletti:
se pensi ancora d'essere mia
figlia,
io ti darò per moglie
a questo amico;
altrimenti va' pure ad impiccarti,
ad elemosinare per la strada,
a crepare di fame e di miseria,
perché, sulla mia anima,
ti disconoscerò come
mia figlia,
e nulla avrai di quello che
possiedo.
T'ho parlato sul serio. Ora
rifletti.
Son fermo a mantenere la parola.
(Esce)
GIULIETTA
- Non c'è lassù
pietà, fra quelle nuvole,
che veda nel profondo la mia
pena?
O dolce madre mia, non mi
scacciate!
Vogliate rinviare queste nozze
di un mese, di una sola settimana;
o preparatemi il letto nuziale
dentro la stessa tomba di
Tebaldo.
MONNA CAPULETI
- Non mi dire più nulla.
Non rispondo.
Fa' come vuoi, perché
con te ho finito.
(Esce)
GIULIETTA
- Oh, Dio, nutrice mia, dimmelo
tu,
come si può impedire
tutto questo?
Il mio sposo è quaggiù,
su questa terra,
ma la fede che gli ho giurato
è in cielo.
Come può quella fede
tornare sulla terra,
se non sarà il mio
sposo
a rendermela lui stesso dal
cielo,
abbandonata che avrà
questa terra?
Confortami, consigliami, nutrice.
Ahimè, com'è
possibile
che il cielo tenda tutte queste
insidie
a un'umile creatura come me?
Che dici? Sai trovare una
parola
che mi riporti almeno un po'
di gioia?
Nutrice mia, dammi un po'
di conforto.
NUTRICE
- Eccola, la parola di conforto:
Romeo, si sa, è bandito
da Verona,
ed io scommetto il mondo contro
nulla,
che non oserà mai tornare
qui
a reclamarti; e se pure lo
osasse,
dovrà farlo comunque
di nascosto.
Così stando le cose,
figlia mia,
credo che sia per te miglior
partito
sposare il conte Paride. È
un bel giovane!
Romeo, al suo confronto, è
uno straccetto.
Non ha l'aquila un occhio
così verde,
così vivace e bello
come Paride!
Che il diavolo si prenda la
mia anima,
s'io non penso che questo
matrimonio,
figliola mia, sia per te gran
ventura,
di gran lunga migliore del
tuo primo;
e, se pur non lo fosse,
è vero che l'attuale
tuo marito
non è morto, ma è
come se lo fosse,
ché, benché
vivo, non ti serve a nulla.
GIULIETTA
- Parli col cuore?
NUTRICE
- Col cuore e con l'anima;
e maledetti siano l'uno e
l'altra,
se non è vero.
GIULIETTA
- Così voglia Iddio.
NUTRICE
- Che vuoi intendere con ciò,
figliola?
GIULIETTA
- Che m'hai ben consigliata
e confortata.
Va' dentro e di' alla mia
signora madre
che, dispiaciuta d'aver dato
cruccio
a mio padre, io vo da Fra'
Lorenzo
per confessarmi e per esserne
assolta.
NUTRICE
- Oh, brava! Vado subito,
perbacco!
Ecco una cosa fatta con giudizio.
(Esce)
GIULIETTA
- Vecchia dannata, schifoso
demonio!
Io non so s'ella faccia più
peccato
a voler far di me una tal
fedifraga,
o a coprir di dileggio il
mio signore,
con quella stessa lingua con
la quale
me l'ha esaltato diecimila
volte,
ponendolo al di là
d'ogni confronto.
Vattene pure, consigliera
mia!
Tu ed il cuore mio, da questo
istante,
non avete più nulla
di comune.
Andrò a trovare il
frate,
per sentire da lui quale rimedio
sappia mai suggerirmi a tutto
questo.
Se mi verrà a mancare
ogni altro mezzo,
uno in potere mio ce l'ho:
la morte!
(Esce)