SCENA I
- Verona, una piazza davanti
alla casa dei Capuleti
Entrano
SANSONE e GREGORIO con spada
e scudo
SANSONE
- E che! Siam tipi da portar
carbone,
noialtri?
GREGORIO
- Ah, certo no!
Noi paghiamo a misura di carbone!
SANSONE
- E se ci salta poi la mosca
al naso
tiriamo fuori questa.
(Indica
la spada al suo fianco)
GREGORIO
- Che scoperta!
È come se dicessi:
"Finché vivo
tiro fuori il mio collo dal
collare"
SANSONE
- Io, se mi smuovo, le scarico
brutte.
GREGORIO -
Sì, soltanto che a
smuoverti e a menare
ci metti qualche tempo.
SANSONE -
Basta ch'io veda un cane di
Montecchi.
Mi basta quello per farmi
scattare.
GREGORIO -
Già, ma scattare è
muoversi;
rimanere ben saldi sulle gambe,
quello è coraggio.
Se tu scatti, scappi.
SANSONE -
No, so scattare pure stando
fermo:
mi basta d'incontrarmi con
un cane
di quella gente là.
Fa' che l'incontro,
sia maschio o femmina, io
prendo il muro.
GREGORIO -
Con questo fai vedere che
sei stroppio;
perché al muro ci va
sempre il più debole.
SANSONE -
Questo è vero; è
per questo che le donne
che sono i vasi più
deboli e fragili,
vanno sempre appoggiate spalle
al muro.
Perciò io sai che faccio?
Caccio dal muro i servi dei
Montecchi
e ci appoggio le serve.
GREGORIO -
Qui però
ci sarà da vedersela
fra uomini,
padroni e servi.
SANSONE -
Per me fa lo stesso.
Mi mostrerò tiranno:
combattuto che avrò
coi loro uomini,
sarò gentile con le
loro donne...
Taglio loro la testa.
GREGORIO -
Ma che dici!
Vuoi tagliare la testa alle
ragazze?
SANSONE -
La testa... Insomma far loro
la festa.
Prendila come vuoi
GREGORIO -
Non sono io,
sono esse che se la devon
prendere
nel senso che vuoi tu.
SANSONE -
E puoi star certo
che fintanto che mi sto ritto
in piedi,
quelle mi sentiranno. Lo san
tutte
che bel tocco di carne è
il sottoscritto.
GREGORIO -
E buon per te che non sei
nato pesce,
perché saresti nato
stoccafisso...
Piuttosto tira fuori quell'arnese,
che arriva gente di Casa Montecchi.
Entrano ABRAMO e BALDASSARRE
SANSONE -
Io la mia lama l'ho bell'e
snudata.
Attacca tu per primo. Io ti
spalleggio.
GREGORIO -
"Spalleggio"...
che vuoi dire?
Mi rivolgi le spalle e te
ne scappi?
SANSONE -
No, non temere.
GREGORIO -
Eh, di te ho paura.
SANSONE -
Restiamo dalla parte della
legge,
lascia che siano loro a cominciare.
GREGORIO -
Io gli passo davanti,
e gli faccio gli occhiacci
del dispetto.
E la prendano pure come vogliono.
SANSONE -
La prenderanno come avranno
il fegato.
Io gli faccio gli occhiacci,
mi mordo il pollice in faccia
a loro,
e lo faccio schioccare, ch'è
un insulto.
E se la prendon male, tanto
meglio.
(Fa il gesto di mordersi il
pollice)
ABRAMO -
Per noi ti mordi il pollice,
compare?
SANSONE -
Io sì, mi mordo il
pollice.
ABRAMO -
Ti sto chiedendo s'è
verso di noi
che te lo mordi. Rispondimi
a tono.
SANSONE -
(A Gregorio, a parte)
Se rispondo di sì,
sto nella legge?
GREGORIO -
(A Sansone, a parte)
No.
SANSONE -
No, compare. Se mi mordo il
pollice,
non è per voi. Però
mi mordo il pollice.
Ma non vorrete mica attaccar
briga?
ABRAMO -
Briga, noi? No.
SANSONE -
Ma se n'aveste l'uzzolo,
io sono a vostra piena discrezione.
Il mio padrone vale quanto
il vostro.
ABRAMO -
Ma non di più.
SANSONE -
D'accordo.
GREGORIO -
(A Sansone, a parte)
Di' "di più",
sta venendo un parente del
padrone.
SANSONE -
Vale di più, sissignore!
ABRAMO -
Tu menti!
SANSONE -
Fuori le spade, se siete degli
uomini!
Gregorio, pronto con il tuo
fendente.
(Si battono)
Entra BENVOLIO
BENVOLIO -
Fermi, insensati, fermi! Giù
le spade!
Idioti! Non sapete quel che
fate!
(S'intromette, e con la propria
spada fa abbassare a terra
quelle dei contendenti)
Entra TEBALDO e s'accosta
a Benvolio, sussurrando
TEBALDO -
Sei bravo, eh?, Benvolio,
a trar la spada
in mezzo a questi timidi cerbiatti!
Vòltati, e guarda in
faccia la tua morte.
BENVOLIO -
Sto solo a metter pace tra
costoro.
Perciò rinfodera, o
almeno adoprala
a darmi mano a rappacificarli.
TEBALDO -
Che! Tu parli di pace spada
in pugno?
Questa parola "pace"
io la odio
come l'inferno, i tuoi Montecchi
e te!
A te, vigliacco, in guardia!
Fatti sotto!
Si battono.
Entrano parecchie persone
delle due famiglie e si accende
una zuffa generale; poi sopraggiungono
dei cittadini armati di mazze
CITTADINI
- Mazze ferrate! Picche! Partigiane!
Datevi addosso, ammazzatevi
tutti!
Capuleti, Montecchi, morte
a tutti!
Entra il vecchio CAPULETI,
uscendo di casa,
in vestaglia, con MONNA CAPULETI
CAPULETI -
Che diavolo di pandemonio
è questo?
Qua il mio spadone!
MONNA CAPULETI -
Sì, la tua stampella!
Una stampella dategli, piuttosto!
Perché chiedi una spada,
che vuoi farci?
CAPULETI -
Il mio spadone! C'è
il Montecchi, il vecchio,
che viene a provocarmi, spada
in pugno!
Entrano il vecchio MONTECCHI
con MONNA MONTECCHI
MONTECCHI -
Vile d'un Capuleti!
(Fa per slanciarsi, spada
in pugno, contro il Capuleti,
ma la moglie lo trattiene)
... E non tenermi!
Lasciami andare!
MONNA MONTECCHI -
Non farai un passo,
per andarti a scontrar con
un nemico.
Entra il PRINCIPE SCALIGERO
col suo seguito
PRINCIPE
- Sudditi ribellanti,
nemici della pace,
profanatori delle vostre spade
con sangue cittadino!... Non
m'ascoltano!...
Oh, dico a voi, non uomini,
ma bestie,
che spegnete la perniciosa
rabbia
che v'infiamma nelle vermiglie
polle
sgorganti dalle vostre vene!
Fermi!
Da quelle vostre mani insanguinate,
gettate a terra, a pena di
tortura,
i maltemprati acciai,
ed ascoltate la vostra condanna
dalle labbra dello sdegnato
Principe.
Tu, vecchio Capuleti, e tu,
Montecchi,
avete già tre volte
disturbato
la bella quiete delle nostre
strade
con zuffe sorte da parole
al vento,
e costretto anche i vecchi
cittadini
di Verona a gettar l'austere
vesti
per tornare a impugnar le
vecchie picche,
ormai coperte di ruggine in
pace,
per separare il vostro antico
odio.
Se disturbate
ancor le nostre strade,
saran le vostre vite, ve lo
giuro,
a pagar la rottura della pace.
Per questa volta, tutti gli
altri a casa.
Tu, Capuleti, vieni via con
me,
e tu, Montecchi, questo pomeriggio
tròvati nella vecchia
Villafranca
dov'è la nostra Corte
di Giustizia,
per conoscer le loro decisioni
sul seguito da dare a questo
caso.
Ora via tutti: a pena capitale,
ordino a tutti di sgombrare
il campo!
(Escono il Principe col seguito,
Capuleti,
Monna Capuleti, Tebaldo e
gli altri)
Restano il vecchio MONTECCHI,
MONNA MONTECCHI e BENVOLIO
MONTECCHI -
Di' un po', nipote, chi ha
rinfocolato
quest'annosa querela?
Tu eri qui quando hanno cominciato?
BENVOLIO -
Quand'io sono arrivato era
già in corso
tra i loro e i vostri una
dannata rissa.
Per cercare di separarli ho
tratto
la mia spada, ma in quello
stesso istante
è sopraggiunto irruente
Tebaldo,
spada in pugno, e fiatandomi
agli orecchi
baldanzosi propositi di sfida,
comincia a sventagliarsela
sul capo
fendendo l'aria che, non vulnerabile,
fischiava, come a beffarsi
di lui.
Mentre ci scambiavamo colpo
a colpo,
e la gente accorreva da ogni
parte,
e la zuffa cresceva e s'ingrossava,
è giunto il Principe,
che ci ha divisi.
MONNA MONTECCHI -
Romeo dov'è? L'hai
visto stamattina?
Sono proprio contenta
che non si sia trovato in
questa rissa.
BENVOLIO
- Signora, vi dirò:
questa stamattina,
poco prima che il sole s'affacciasse
all'indorata finestra d'oriente,
un certo turbamento dello
spirito
m'aveva spinto a uscir fuori
di casa;
e proprio
là, sotto quel bosco
d'aceri
che sorge ad ovest della città,
m'è occorso di vedere
vostro figlio
che vagava anche lui sì
di buon'ora.
Gli sono andato incontro,
ma lui, subito,
come s'è accorto della
mia presenza,
è scomparso nel fondo
del boschetto.
Io, misurando dalla sua tristezza
la mia che anch'essa cercava
sollievo
dove meno rischiasse d'esser
vista
essendo già di peso
anche a me stesso,
ho proseguito nel mio stato
d'animo,
senza curarmi di seguire il
suo,
volentieri schivando d'incontrare
chi volentieri da me s'involava.
MONNA MONTECCHI -
L'han già notato là
molte mattine
a far più rorida, con
le sue lagrime,
la recente rugiada mattutina,
e ad addensar le nuvole del
cielo
coll'umor dei profondi suoi
sospiri.
Poi, come il primo rallegrante
raggio
dall'estreme regioni dell'oriente
prende a scostare dal letto
d'Aurora
le fumose cortine della notte,
quell'intristito povero mio
figlio,
furtivo, quasi schivo della
luce,
corre a casa, si rimprigiona
in camera,
e lì, sbarrate tutte
le finestre,
ed escludendo dalla sua persona
la benefica luce del mattino,
si riproduce, ad arte, un'altra
notte.
Questo umor tetro gli sarà
fatale
se non l'aiuti qualche buon
consiglio
a rimuoverne la segreta causa.
BENVOLIO -
E quella causa voi, nobile
zio,
la conoscete?
MONTECCHI -
No, non la conosco,
né ho modo di conoscerla
da lui.
BENVOLIO -
Avete già provato a
interrogarlo?
MONTECCHI
- Ci ho provato, e com'io
molti altri amici.
Ma il solo confidente del
suo male,
è lui stesso... non
so quanto sincero;
e tanto
chiuso in sé, tanto
segreto,
tanto profondamente impenetrabile,
tanto restio a lasciarsi sondare,
da somigliare al bocciolo
d'un fiore
che, morsicato da un maligno
verme,
esita a schiudere i soavi
petali
all'alitar dell'aria e offrire
al sole
l'olezzante fiorita sua vaghezza.
Potessimo saper da dove viene
il suo male, faremmo volentieri
quanto necessitasse per curarlo.
Entra, dal fondo, ROMEO
BENVOLIO -
Ma eccolo. Mettetevi in disparte:
mi deve dir lui stesso, di
sua bocca,
che cos'è che l'ambascia,
o deve dirmi mille volte "No"!
Vi prego, allontanatevi.
MONTECCHI -
Spero che tu sia tanto fortunato
da ottenere a quattr'occhi,
qui, da lui,
una schietta apertura. Andiamo,
cara.
(Escono il Montecchi e Monna
Montecchi)
BENVOLIO -
(A Romeo che intanto s'è
avvicinato)
Buon mattino, cugino.
ROMEO -
Così giovane è
ancora questo giorno?
BENVOLIO -
Sono appena le nove.
ROMEO -
Ah, l'ore tristi
come son lunghe all'uomo!...
Era mio padre
quello che se n'è andato
così in fretta?
BENVOLIO -
Tuo padre, sì... Ma
quale interna pena
fa tanto lunghe l'ore di Romeo?
ROMEO -
La pena di non posseder per
sé
la cosa che gliele farebbe
brevi.
BENVOLIO -
Innamorato?...
ROMEO -
Fuori...
BENVOLIO -
Dall'amore?
ROMEO -
No, dalle grazie di colei
che amo.
BENVOLIO -
Ah, perché Amore, sì
bello alla vista,
si deve dimostrar così
tiranno
e crudele alla prova!
ROMEO -
Ahimè, è bendato,
Amore, e deve scernere senz'occhi
le vie che vanno dritte alle
sue voglie...
Beh, dove si va a pranzo oggi?...
(Vedendo sangue in terra)
Ohilà!
Che zuffa ci sarà mai
stata qui?
Però è inutile
che me lo dici,
ho tutto udito. C'entra molto
l'odio,
in tutto questo, ma ancor
più l'amore.
O amor litigioso! Odio amoroso!
O tutto prima creato dal nulla!
O vana serietà! Vanità
seria!
O caos informe di splendide
forme!
O plumbea piuma! Lucida caligine!
Gelido fuoco! Inferma sanità!
Sonno insonne, che è
quel che non è!
Questo è l'amore ch'io
mi sento dentro,
senza nulla sentire che sia
amore.
Non ridi?
BENVOLIO -
No, cugino. Se mai, piango.
ROMEO -
E di che, cuor gentile?
BENVOLIO -
Del tuo cuore,
così gentile e così
pien d'ambascia.
ROMEO -
È la crudele legge
dell'amore.
Già le pene del mio
pesano troppo
sul mio cuore, e tu vuoi ch'esso
trabocchi
coll'aggiungervi il peso delle
tue:
giacché quest'affettuosa
tua premura
altro non fa che aggiunger
nuova ambascia
a quella che m'opprime, ch'è
già troppa.
L'amore è vaporosa
nebbiolina
formata dai sospiri;
se si dissolve, è fuoco
che sfavilla
scintillando negli occhi degli
amanti;
s'è ostacolato, è
un mare alimentato
dalle lacrime degli stessi
amanti.
Che altro è più?
Una follia segreta,
un'acritudine che mozza il
fiato,
una dolcezza
che ti tira su.
Addio, cugino.
(Fa per andarsene)
BENVOLIO -
Aspetta, t'accompagno.
Mi fai torto a piantarmi così
in asso.
ROMEO -
Oh, ho smarrito me stesso...
Non son io il Romeo che vedi
qui.
Romeo è altrove.
BENVOLIO -
Dimmi, seriamente,
chi è quella di cui
sei innamorato?
ROMEO -
"Seriamente", perché?
Devo esser triste
per dirtelo, piangendo?
BENVOLIO -
Senza piangere,
ma seriamente, dimmi, chi
è che ami?
ROMEO -
Puoi domandare ad un malato
grave
di fare "seriamente"
testamento?
La tua è una domanda
posta male,
per uno che si sente tanto
male.
"Seriamente", cugino,
amo una donna.
BENVOLIO -
Avevo allora ben colto nel
segno
nel supporre che sei innamorato.
ROMEO -
Infatti. Sei un bravo tiratore.
E la donna che amo è
una bellezza.
BENVOLIO -
Un bel bersaglio è
subito centrato,
caro il mio bel cugino!
ROMEO -
Questo, però, non l'hai
centrato affatto:
la freccia di Cupido non la
tocca!
Ella ha il segno di Diana,
e, ben protetta dentro la
corazza
della sua castità,
rimane indenne
dalla quadrella del fragile
arco
del fanciullo Cupido.
Sfugge all'assedio di frasi
d'amore,
schiva l'incontro d'invadenti
sguardi,
e non apre
il suo grembo manco all'oro
che pur si dice che seduce
i santi.
Oh, è ricca di beltà,
povera solo in questo: morta
lei,
morirà insieme con
la sua bellezza
il magazzino della sua ricchezza.
BENVOLIO
- Ha fatto forse voto
di mantenersi casta finché
vive?
ROMEO -
Credo proprio di sì:
ed è un risparmio
che si risolverà in
un grande sperpero,
perché beltà
che si muoia di fame
per causa della stessa sua
astinenza
preclude alla beltà
ogni speranza
di riprodursi. Oh, ella è
troppo bella
e saggia, troppo saggiamente
bella
per meritarsi la beatitudine
gettando me nella disperazione!
S'è votata a non mai
innamorarsi,
ed io per causa di questo
voto
vivo, ma sono morto;
son vivo sol per dirti che
son morto.
BENVOLIO -
Dammi retta, non ci pensare
più.
ROMEO -
Oh, insegnalo tu alla mia
mente
come può trattenersi
dal pensare!
BENVOLIO -
Restituendo libertà
ai tuoi occhi;
volgendoli a mirare altre
bellezze.
ROMEO -
Sarebbe come richiamar di
più
in causa quella sua, così
squisita.
Quelle nere felici mascherine
che baciano la fronte a belle
dame
danno agli sguardi nostri
l'illusione
che dietro quella loro nera
sagoma
ci celino chissà quali
bellezze.
Chi è colpito da cecità
improvvisa
non può dimenticar
senza dolore
il perduto tesoro della vista.
Mettimi avanti agli occhi
una bellezza
quanto tu vuoi perfetta:
agli occhi miei sarà
soltanto un foglio
su cui leggerò il nome
di colei
ch'è ancor più
bella. No, cugino, no,
tu non sarai capace d'insegnarmi
a non pensar più a
lei. Addio, Benvolio.
BENVOLIO -
Eppure io t'insegnerò
quest'arte,
o morirò con la coscienza
in debito.
(Escono)
SCENA II - Verona, una via
Entra il vecchio CAPULETI,
PARIDE e un SERVO
CAPULETI
- Il Montecchi ha sul capo,
come me,
la minaccia dall'alto d'un
castigo;
anziani come siamo, tra noi
due
non dovrebbe perciò
esser difficile
trovare il modo di vivere
in pace.
PARIDE
- D'un'onorevole reputazione
siete entrambi. E davvero
è gran peccato
che abbiate seguitato tanto
a lungo
a vivere in codesta inimicizia...
Ma, signore, di grazia,
quale risposta date alla mia
offerta?
CAPULETI
- Non posso che ripetervi
il già detto:
la mia figliola è ancora
nuova al mondo,
non ha compiuti i suoi quattordici
anni;
lasciamo ancora che appassisca
in lei
il rigoglio di altre due estati,
prima che la si possa dir
matura
per essere una sposa.
PARIDE
- Fanciulle ancor più
giovani di lei
son diventate già madri
felici.
CAPULETI
- Quelle che vanno spose tanto
presto
sono votate a perdere anche
presto
il frescor giovanile. Caro
Paride,
la terra s'è inghiottita
fino ad oggi
tutte le mie speranze,
l'ultima è lei... Intanto
corteggiatela,
e cercate di conquistarne
il cuore.
Il solo mio volere
non è che parte del
suo gradimento:
s'ella v'è consenziente,
il mio consenso
e la voce che molto cordialmente
l'accorderà si troveranno
insieme
nel raggio della sua spontanea
scelta.
Questa sera terrò qui
in casa mia,
com'è vetusta usanza
di famiglia,
un festino; e ad esso ho convitato
un certo
numero di buoni amici;
ci sarete anche voi, gradito
ospite.
Ebbene, sotto il mio modesto
tetto
questa notte potrete contemplare
stelle che solcano le vie
terrene
illuminando il buio della
notte.
E potrete godere in casa mia
in mezzo a freschi bocciòli
di femmine
il piacere che è dato
di gustare
a lieta giovinezza, quando
Aprile,
vestito già della sua
gaia veste,
è alle calcagna degli
ultimi sprazzi
del zoppicante e freddoloso
inverno.
Potrete intrattenervi con
ciascuna,
tutte osservarle, e far la
vostra scelta
su quella che, secondo il
vostro gusto,
per merito sovrasti tutte
l'altre.
Riguardandole meglio tutte
quante,
la mia può star nel
novero a far numero,
ma nel merito è priva
d'ogni pregio.
Su, venite con me.
(Al Servo)
E tu, compare,
mettiti in giro, senza perder
tempo,
per le belle contrade di Verona
e vammi alla ricerca della
gente
il cui nome è segnato
in questa lista;
farai sapere a ciascuno di
loro
che la mia casa ed il mio
benvenuto
attendono la loro compiacenza.
(Escono
il vecchio Capuleti e Paride)
SERVO Andare
a ricercar tutta la gente
il cui nome è segnato
in questa lista...
Sta scritto, in verità,
che il calzolaio
deve sapere trafficar col
metro,
il sarto con la forma delle
scarpe,
il pescatore con tinte e pennelli,
il pittore con l'amo; e così
io:
ecco che mi si manda a ricercare
gente il cui nome è
scritto in questo foglio,
quando non so nemmeno quali
nomi
v'ha scritto chi l'ha scritto,
per via
che non ho mai imparato a
leggere.
Mi ci vuole qualcuno ch'è
istruito.
Eccolo, infatti, pare, ed
a buon punto.
Entrano BENVOLIO e ROMEO
BENVOLIO -
Fuoco consuma fuoco, caro
mio.
Il dolore degli altri scema
il tuo.
Se a ruotare in un senso
ti viene il capogiro, va all'inverso
sempre girando, e vedrai che
ti passa.
Disperato dolor trova sua
cura
nell'altrui pena. Date un
nuovo tossico
all'occhio infetto, ed il
tossico vecchio
cesserà dal produrre
altra infezione.
ROMEO -
Eh, già, pure la foglia
di piantaggine
è un buon rimedio.
BENVOLIO -
Rimedio a che cosa?
ROMEO -
Al tuo stinco, dovessi mai
spezzartelo.
BENVOLIO -
Ma che dici, sei matto?
ROMEO -
Matto, no,
ma come un matto incatenato,
sì,
stretto, in prigione, privato
del cibo,
frustrato, tormentato...
(Vede
il Servo dei Capuleti)
Olà, buon uomo,
buona giornata a te.
SERVO -
E buona pure a voi la faccia
Iddio.
Di grazia, signor mio, sapete
leggere?
ROMEO -
Sì, la mia malasorte
nel grande libro della mia
miseria.
SERVO -
Magari questo pure senza libro
l'avrete appreso... Ma sapete
leggere
tutto quel che vi viene sotto
gli occhi?
ROMEO -
Sì, certo, se conosco
l'alfabeto
e la lingua nei quali è
stato scritto.
SERVO -
Questo è parlare da
persona onesta.
Allora state allegro. Vi saluto.
ROMEO -
No, resta, amico, questo lo
so leggere.
(Gli prende
dalle mani il foglio e legge)
"Signor Martino, con
signora e figlie;
"Conte Anselmo e vezzose
sue sorelle;
"la bella dama vedova
Vitruvio;
"signor Piacenzio e graziose
nipoti;
"zio Capuleti con signora
e figli;
"la mia bella nipote
Rosalina;
"Livia; il signor Valenzio
e suo cugino;
"Tebaldo; Lucio e la
briosa Elena".
Una bella brigata. E dove
vanno?
SERVO -
Su.
ROMEO -
Dove, su?
SERVO -
Di sopra, a casa nostra.
ROMEO -
Nella casa di chi?
SERVO -
Del mio padrone.
ROMEO -
Già, te l'avrei dovuto
chieder prima.
SERVO -
Senza che lo chiediate, ve
lo dico:
il mio padrone è il
ricco Capuleti;
e se non siete di casa Montecchi
potete favorire pure voi
a bere un goccio. State allegro,
addio.
(Esce)
BENVOLIO
- A codesto festino,
che i Capuleti danno tutti
gli anni
per un'antica usanza di famiglia,
va a cenare la bella Rosalina,
la tua passione, insieme alle
più belle
e le più vagheggiate
di Verona.
Andiamoci, e là dentro
potrai fare,
con occhio spassionato il
paragone
tra l'aspetto di lei e di
qualcuna
che io
t'indicherò; e ci scommetto
che al paragone il tuo leggiadro
cigno
ti sembrerà una povera
cornacchia.
ROMEO -
Se la pia devozione del mio
occhio
dovesse indurmi a proclamare
vera
una tal madornale falsità,
che le mie lacrime si faccian
fiamme,
e, come eretiche all'autodafé,
brucino queste loro trasparenze
che, tante volte annegate
nel pianto,
mai furono capaci di morire!
Una più bella dell'amore
mio?...
Sulla terra l'onniveggente
sole
da quando questo mondo ebbe
principio
non vide donna che le stesse
a pari.
BENVOLIO -
Eh, tu l'hai sempre vista
tanto bella
perché non l'hai mai
vista insieme ad altre,
e sopra la bilancia dei tuoi
occhi
s'è controbilanciata
da se stessa.
Ma nelle tue bilance di cristallo
se metti sopra un piatto la
tua donna
e sopra un altro alcun'altra
di quelle
che vedrai splendere a questo
festino,
colei ch'ora ti sembra la
più bella
ti parrà appena degna
d'attenzione.
ROMEO -
Verrò con te alla festa,
non per vedere queste tue
beltà,
ma solo per bearmi a contemplare
il fulgore di quella che so
io.
(Escono)
SCENA III
- Verona, una stanza in casa
Capuleti
Entrano
MONNA CAPULETI e la NUTRICE
MONNA CAPULETI -
Balia, dov'è mia figlia?
Cercala e dille di venir da
me.
NUTRICE
- Gliel'ho già detto
di venire, diamine!,
quant'è vero, signora,
ch'ero vergine
a dodici anni...
(Chiamando)
Ebbene,
farfalletta!...
Agnellino!... Ma dove s'è
cacciata?
Dio ne guardi! Dov'è
questa figliola?
Giulietta, dove sei?
GIULIETTA -
(Da dentro)
Che c'è? Chi chiama?
NUTRICE -
Tua madre.
GIULIETTA -
(Entrando)
Sono qua, signora madre.
Desiderate?
MONNA CAPULETI -
Ebbene, ho da parlarti.
Nutrice, lasciaci sole un
momento.
Abbiamo da discorrere in segreto.
Anzi, no... resta... Adesso
che ci penso,
nutrice, è meglio che
tu sia presente.
Tu sai la bella età
di questa figlia.
NUTRICE -
Come no: ve la posso precisare
senza sbagliare nemmeno di
un'ora.
MONNA CAPULETI -
È vicina ai quattordici.
NUTRICE -
Quattordici,
ci scommetto quattordici miei
denti
- anche se, a mio dolore,
devo ammettere
che me ne son rimasti solo
quattro -
ancora non li compie: il primo
agosto.
Quanto manca da oggi al primo
agosto?
MONNA CAPULETI -
Due settimane, o qualcosa
di più.
NUTRICE
- Sia più sia meno,
quando il primo agosto
verrà sul calendario,
quella notte
Giulietta compirà quattordici
anni.
Susanna mia e lei - conceda
Iddio
la pace a tutte l'anime cristiane
-
erano d'una età. Susanna
mia
ora è con Dio (per
me era troppo buona),
ma la notte davanti al primo
agosto
Giulietta compirà quattordici
anni.
Me lo ricordo bene, per la
Vergine!
Sono undici anni dal gran
terremoto;
e fu quel
giorno che la divezzai:
me lo ricordo come fosse adesso.
M'ero cosparsa d'assenzio
i capezzoli,
e me ne stavo ben seduta al
sole
poggiata al muro della colombaia.
Voi eravate col padrone a
Mantova
(eh, la testa mi serve ancora
bene!)
ma, dicevo, quand'ella assaporò
l'amaro dell'assenzio sul
capezzolo,
bisognava veder la pazzerella
quante bizze mi fece con la
poppa!
Fu in quel momento che la
colombaia
si scosse tutta, come a dirmi:
"Muoviti!";
ma non fu necessario, v'assicuro,
che alcuno m'imponesse di
scappare.
Da allora son passati undici
anni,
perché lei si reggeva
già da sola,
anzi, che dico, Croce del
Signore,
correva e zampettava dappertutto...
Infatti il giorno prima, nel
cadere,
s'era fatta un bel bozzo sulla
fronte
e mio marito (che Dio l'abbia
in pace:
quello era veramente un cuorcontento!)
nel sollevarla e mettersela
in collo,
"Che fai - disse - mi
caschi ventre a terra?
Va là che quando avrai
messo giudizio,
ti piacerà di cadere
all'indietro,
vero, Giulietta?"...
E quella birichina,
perbacco, smise di piagnucolare
e disse: "Sì".
Ma guarda un po', alle volte,
come uno scherzo ti viene
a pennello!
Per me, dovessi campare mill'anni,
non potrò mai scordare
quella scena...
"Vero, Giulietta?"
- le domanda lui
e quella pazzerella, all'improvviso,
smette di piangere e risponde:
"Sì"!
MONNA CAPULETI -
Sì, però basta,
adesso; fa' silenzio.
NUTRICE -
Sì, signora, sto zitta
ed in silenzio...
E tuttavia mi viene ancor
da ridere
se ripenso al momento in cui,
di colpo,
smise di piangere per dire:
"Sì";
e aveva in fronte, v'assicuro,
un bozzo
grosso come un fagiolo di
galletto:
un brutto colpo, e lei piangeva
forte.
"Come! Mi cadi con la
pancia in giù?
- fa mia marito - Quando sarai
grande
saprai bene cadere pancia
in su,
vero, Giulietta?". E
quella, all'improvviso,
si calma tutta e gli risponde:
"Sì".
GIULIETTA -
Bene. Però, ti prego,
ora, Nutrice,
di calmarti anche tu.
NUTRICE -
Basta, ho finito.
Giulietta, che il Signore
t'abbia in grazia,
tu sei stata la bimba più
graziosa
ch'io abbia avuta attaccata
alle poppe.
Vivessi tanto da vederti sposa,
non avrei più alcun
altro desiderio.
MONNA CAPULETI -
Venivo appunto a toccar, per
la Vergine,
questo argomento: come maritarla.
Giulietta, figlia mia, dimmi,
che pensi
riguardo al fatto di prender
marito?
GIULIETTA -
È un onore che io nemmeno
sogno.
NUTRICE -
Ecco, appunto, un onore, hai
detto bene!
Non fossi stata solo la tua
balia,
direi che insieme al latte
della poppa
hai succhiato da me pure il
giudizio.
MONNA CAPULETI -
Eppure è giunto il
tempo, figlia mia,
che pensi a maritarti. Qui
a Verona,
ragazze d'ottima reputazione
più giovani di te,
sono già madri;
io stessa, all'età
tua, se ben ricordo,
ero tua madre già,
quando tu, invece,
pensi d'essere ancora una
bambina.
A farla breve: c'è
il nobile Paride
che ci ha testé richiesta
la tua mano.
NUTRICE -
Che uomo, quello là,
ragazza mia!
Uno che tutto il mondo...
così bello,
che pare un figurino!
MONNA CAPULETI -
Un più bel fiore
non produce l'estate di Verona.
NUTRICE -
È vero: un fiore d'uomo,
proprio un fiore!
MONNA CAPULETI
- (A Giulietta)
Che dici: senti di poterlo
amare
quel gentiluomo? Lo vedrai
stanotte,
alla festa, da noi: cerca
di leggere
quel ch'è
scritto nel libro del suo
volto,
e scopri in esso tutta la
delizia
che la bellezza ha scritto
di sua mano;
osserva come tutti i lineamenti
sono armonicamente coniugati
sì che ciascuno presta
gioia all'altro;
e tutto quel che in questo
bel volume
ti rimanesse oscuro, puoi
trovarlo
negli occhi suoi, come una
"nota a margine".
Questo prezioso volume d'amore,
questo amatore ancora non
legato,
ha sol bisogno d'una legatura
per diventare ancora più
leggiadro.
Il pesce vive in mare; il
mare è bello;
ed è assai merito del
bello esterno
far risaltare il bello che
sta dentro.
Il libro che contiene un'aurea
storia
e la tien chiusa con fermagli
d'oro
rende partecipe del suo splendore
più d'un occhio. Se
tu lo farai tuo,
sarai partecipe d'un tal possesso,
senza, per ciò, diminuir
te stessa.
NUTRICE -
Diminuir se stessa? Ma che
dite!
Ingrossarsi, piuttosto: accanto
agli uomini
le femmine diventano più
grosse!
MONNA CAPULETI -
Insomma, figlia mia, a parlar
corto:
ti senti, o no, di poter corrispondere
sinceramente all'amore di
Paride?
GIULIETTA -
Vedrò di farmelo piacere,
madre,
se vedere può suscitar
piacere;
ma non spingerò l'occhio
più in là di
quanto il vostro buon consenso
non dia loro il permesso di
volare.
Entra
un SERVO
SERVO -
Signora, sono giunti gli invitati,
il desinare è in tavola,
chiedon di voi e di madamigella,
reclamata a gran voce è
la Nutrice
dalla dispensa. Noi siamo
agli estremi.
Io debbo ritornar di là
a servire.
Vi scongiuro, seguitemi. Ma
presto!
(Esce il Servo)
MONNA CAPULETI -
Ti seguiamo. Giulietta, il
Conte aspetta.
NUTRICE -
Va', figliola, e fa' in modo
che s'aggiungano
felici notti ai tuoi felici
giorni.
(Escono)
SCENA IV
- Verona, una strada
Entrano
ROMEO, MERCUZIO, BENVOLIO,
con altri cinque o sei, tutti
mascherati, alcuni con torce.
ROMEO è mascherato
da pellegrino
ROMEO -
Allora, s'ha da far questo
discorso
di scuse, o s'entra senza
chieder scusa?
BENVOLIO -
Certe prolissità son
fuori moda.
Non c'è nessun Cupido
in mezzo a noi,
con sciarpa a mo' di benda
agli occhi ed arco
di legno tinto alla maniera
tartara
da mettere paura alle signore
come se fosse uno spaventapasseri;
né noi si vuole entrare
recitando
timidamente, col suggeritore,
un prologo mandato appena
a mente.
Usino pure, a giudicar di
noi,
la misura che farà
lor più comodo;
noi ci limiteremo a misurare
quattro passi di danza, e
ce ne andiamo.
ROMEO -
A me date una torcia, niente
danze:
non son fatto per simili volteggi.
Col buio dentro, porto almeno
un lume.
MERCUZIO -
No, no, devi ballare, caro
mio.
ROMEO -
Ah, questo no, credetemi,
non posso.
Voi avete scarpini adatti
al ballo
dotati di solette leggerissime;
io porto invece un'anima di
piombo
che mi tiene così inchiodato
a terra,
da impedirmi di fare alcuna
mossa.
MERCUZIO -
Dal momento che sei innamorato,
fatti prestare l'ali da Cupido,
e vola sopra la comune altezza.
ROMEO -
Le ferite prodotte dal suo
strale
sono troppo impietose per
librarmi
a volo sulle sue penne leggere;
e mi trovo sì stretto
dai suoi lacci,
da non poter levarmi un solo
palmo
al disopra del mio male d'amore:
e affondo sotto il suo grave
fardello.
MERCUZIO -
Però per annegarti
nell'amore
dovresti caricarlo del tuo
peso:
un po' troppo, direi,
per una coserella tanto tenera.
ROMEO -
Che! L'amore una coserella
tenera?
Più ruvida, più
aspra, più violenta
non ce n'è alcuna...
E punge come spina.
MERCUZIO -
Se l'amore è sì
ruvido con te
siilo tu altrettanto con l'amore,
e rendigli puntura per puntura:
alla fine vedrai che l'avrai
vinta...
Basta, datemi adesso un qualche
astuccio
dove poter nascondere la faccia.
(Mettendosi la maschera)
Ecco: una maschera su un'altra
maschera.
Che importa adesso se un occhio
indiscreto
scopre che sono brutto? Sul
mio viso
c'è questo brutto ceffo
ringrugnito
che arrossirà per me.
BENVOLIO -
Su, bussa ed entra;
e appena dentro, forza con
le gambe.
ROMEO -
Allora me la date questa torcia?
Lascio agli spensierati gingilloni
di titillare coi loro calcagni
le insensibili stuoie; quanto
a me,
mi sto col vecchio proverbio
del nonno:
"Reggo il moccolo e me
ne sto a guardare;
"la selvaggina mai fu
così bella,
"ma la caccia per me
è ormai finita".
MERCUZIO -
Toh, sentitelo! "Il sorcio
s'è infognato",
come direbbe il capo degli
sbirri.
Ma se pure ti fossi impantanato
fino agli orecchi, penseremo
noi
a trarti fuori da cotesta
melma,
o, a dirla con rispetto, dall'amore.
Andiamo, decidiamoci, se no,
queste torce faranno luce
al giorno.
ROMEO -
Esagerato!
MERCUZIO -
Esagerato un corno!
Dico che a stare a traccheggiar
qui fuori,
noi sprechiamo le luci delle
fiaccole
come a tenerle accese in pieno
giorno.
Cerca di prendere nel senso
buono
quel che diciamo, ché
il pensare nostro
ha fatto stanza almeno cinque
volte
nella buona intenzione di
noi tutti,
prima di star per una volta
sola
in ciascuno dei nostri cinque
sensi.
ROMEO -
L'intenzione d'andare a questa
festa
è buona, ma non è
da senno andarci.
MERCUZIO -
E perché mai?
ROMEO -
Stanotte ho fatto un sogno.
MERCUZIO -
Anch'io.
ROMEO -
Davvero. E che cosa hai sognato?
MERCUZIO -
Che quei che sognano spesso
soggiacciono...
ROMEO -
Che soggiacciono! Giacciono.
A dormire.
Sognando cose vere.
MERCUZIO
- Ah, ho capito:
da te c'è stata la
regina Mab.
ROMEO -
Regina Mab? Chi diavolo è
costei?
MERCUZIO
- La mammana del regno delle
fate;
e si presenta sempre in una
forma
non più grossa d'una
pietruzza d'agata
al dito indice di un assessore;
viaggia su un equipaggio trainato
da una muta di piccoli esserini,
e si posa sul naso di chi
dorme;
i raggi delle ruote di quel
traino
sono formati da zampe di ragno,
il mantice dall'ali di locuste,
le briglie da sottili filamenti
d'esili ragnatele; i pettorali
dai rugiadosi raggi della
luna;
la frusta ha il manico d'osso
di grillo
e la sferza d'un filo sottilissimo;
il cocchiere, a cassetta,
è un moscerino
tutto grigio-vestito, non
più grande
della metà d'uno di
quei vermetti
che si tolgono fuori con lo
spillo
dal dito d'una pigra fanciulletta;
il cocchio è un guscio
cavo di nocciola
lavorato così da uno
scoiattolo
falegname o da qualche vecchio
tarlo;
son essi i carrozzieri delle
fate
l'uno e l'altro, da tempo
immemorabile.
In questo arnese, Mab va cavalcando,
la notte, pei cervelli degli
amanti,
e allora questi sognano d'amore;
o per le rotule dei cortigiani
che sognan
subito salamelecchi;
o sulle dita d'uomini di legge
che sognan subito laute parcelle;
talvolta sulle labbra delle
dame,
e queste sognano d'esser baciate,
e spesso sulle loro labbra
Mab
irritata dai loro fiati guasti
pei troppi dolci, lascia delle
pustole.
Talvolta anche galoppa su
pel naso
d'un sollecitatore di favori
a pagamento, e quello, allora,
in sogno,
sente l'odore d'una petizione;
talvolta va a solleticare
il naso
col crine d'un porcello della
decima,
ad un prevosto e quello allora
sogna
un altro benefizio parrocchiale.
Talora passa con il suo equipaggio
sul collo d'un soldato militare,
e allora questi sogna a tutto
spiano
di tagliar gargarozzi di nemici,
brecce, imboscate, lame di
Toledo,
brindisi con bicchieri senza
fondo;
poi, d'improvviso, gli rulla
all'orecchio
il tamburo e lui salta su
di botto,
si sveglia, e dopo avere smoccolato
per la paura un paio di bestemmie,
se ne ricade giù, morto
di sonno.
È quella stessa Mab
che nella notte
intreccia le criniere dei
cavalli
e fa dei loro crini sbarruffati,
unti e bisunti, dei magici
nodi
che a districarli portano
disgrazia.
È lei la maga che quando
le vergini
giacciono a letto con la pancia
all'aria,
le preme perché imparino
a "portare"
e le fa donne di "buon
portamento".
È lei che...
ROMEO -
Basta, via, Mercuzio, basta!
Stai parlando del nulla!
MERCUZIO
- Sì, di sogni,
che sono i figli d'un cervello
pigro,
fatti solo di vana fantasia,
che sono inconsistenti come
l'aria,
più incostanti del
vento, che ora scherza
col grembo gelido del settentrione,
ed ora, all'improvviso, in
tutta furia,
se ne va via sbuffando e volge
il volto
alle stillanti rugiade del
sud.
BENVOLIO -
Ho paura che il sogno di cui
parli
ci stia soffiando fuori di
noi stessi:
perché la cena dev'esser
finita,
e noi arriveremo troppo tardi.
ROMEO -
Temo invece che sarà
troppo presto;
perché il mio spirito
mi fa presago
di eventi ancor sospesi nelle
stelle
che avranno il lor funesto
appuntamento
in questa festa, e segneranno
il termine
d'una vita spregiata, com'è
quella
ch'io chiudo in petto, e che
un crudel destino
sembra aver condannato fin
da ora
ad immatura ed impietosa morte.
Ma Colui che governa la mia
rotta
da nocchiero, diriga la mia
vela.
Avanti, allegramente!
BENVOLIO
- Via il tamburo!
(Escono)
SCENA V
- Verona, la casa dei Capuleti
Musici
che attendono
Entrano alcuni SERVI di mensa
1°
SERVO - Dov'è andato
Pignatta?
Che sta a fare, che non ci
dà una mano
a sparecchiar la tavola?...
Già, lui,
sostituire un piatto... Non
sia mai!
Lui grattare un tagliere...
Non sia mai!
2°
SERVO - Quando la pulizia
deve risiedere
nelle mani di una persona
o due
che per giunta non se le son
lavate,
è una schifezza!
1°
SERVO - Via quegli sgabelli!
Quella credenza spostala di
là.
Bada all'argenteria...
E tu, sii bravo, mettimi da
parte
un pezzettino di quel marzapane;
e, se non ti dispiace, di'
al portiere
che mandi su Susanna Mola
e Nelly.
Ehi, Antonio, Pignatta!
3°
SERVO - Eccoci pronti.
1°
SERVO - Pignatta, in sala
chiedono di te,
tutti ti cercano, tutti ti
vogliono,
sei la persona più
desiderata!
3°
SERVO - Non si può
star di qua e di là
ad un tempo.
2°
SERVO - Fate cuore, ragazzi!
State allegri!
Chi campa più di tutti,
piglia tutto!
(Si ritirano nel fondo)
Entrano, da una parte, il
CAPULETO, con GIULIETTA, TEBALDO
e la NUTRICE, e si fanno incontro
agli invitati, che entrano
dalla parte opposta
CAPULETO -
Signori, benvenuti in casa
mia!
Le dame senza calli ai lor
piedini
faranno un giro di danza con
noi.
Ah, ah, mie belle dame, e
chi di voi
si potrà rifiutare
di ballare?
Giuro che quella che fa la
ritrosa
qualche calletto ai piedi
deve averlo.
Ci ho colto bene, vero?...
Avanti, avanti!
Benvenuti! Ho conosciuto anch'io
il tempo quando nascondevo
il viso
dietro lo schermo d'una mascherina,
e sussurravo a qualche bella
dama,
all'orecchio, galanti paroline...
Ma quel tempo è lontano,
strapassato.
Voi siete i benvenuti, miei
signori!
Andiamo, suonatori, un po'
di musica.
(Musica e danza)
Sala, sala, signori! Fate
largo!
E voi, ragazze, via coi vostri
passi!
(Ai servi)
Più luce, giovanotti!...
Via quei tavoli,
e andate a spegnere il fuoco
al camino,
che l'aria è divenuta
troppo calda.
Ma bravi, questa festa improvvisata
sta riuscendo bene... Vieni,
siedi,
siediti qua, cugino Capuleti;
per me e per te la stagione
del ballo
è passata da un pezzo.
Quanto tempo
da che ci siamo ritrovati
insieme
l'ultima volta ad una mascherata?
SECONDO
CAPULETI - Madonna Santa!
Saranno trent'anni.
CAPULETO
- Che dici! No, non mi pare
poi tanto!
Dal giorno delle nozze di
Lucenzio.
Alta o bassa che venga Pentecoste
(in quel giorno ci siamo mascherati)
saranno tutt'al più
venticinqu'anni.
SECONDO
CAPULETI - Di più,
di più: ne ha già
di più suo figlio,
che sta sui trenta.
CAPULETO -
Che mi vai contando!
Se si trovava ancor sotto
tutela
due anni fa...
ROMEO -
(A un servo, indicando Giulietta)
Chi è quella damina
laggiù, che con il
tocco di sua mano
fa ricca quella del suo cavaliere?
SERVO -
Mi dispiace, signore, non
lo so.
(Si allontana il servo)
ROMEO -
Oh, ch'ella insegna perfino
alle torce
come splendere di più
viva luce!
Par che sul buio volto della
notte
ella brilli come una gemma
rara
pendente dall'orecchio d'una
Etiope.
Bellezza troppo ricca per
usarne,
troppo cara e preziosa per
la terra!
Ella spicca fra queste sue
compagne
come spicca una nivea colomba
in mezzo ad uno stormo di
cornacchie.
Finito questo ballo,
osserverò dove s'andrà
a posare
e, toccando la sua, farò
beata
questa mia rozza mano...
Ha mai amato il mio cuore
finora?...
Se dice sì, occhi miei,
sbugiardatelo,
perch'io non ho mai visto
vera beltà prima di
questa notte.
(Romeo, pur parlando a se
stesso, ha parlato a voce
alta e Tebaldo, passandogli
vicino, l'ha sentito)
TEBALDO -
Alla voce, costui pare un
Montecchi.
Non mi sbaglio.
(Ad un servo)
Ragazzo, la mia spada!
Come! Il furfante ardisce
venir qui,
coperto da una maschera grottesca,
a farsi beffa della nostra
festa?
Ebbene, per l'amore del mio
sangue
e per l'onore della mia famiglia,
non credo di commettere peccato
a stenderlo qui morto, con
un colpo.
CAPULETO -
Che c'è che t'agita
tanto, nipote?
TEBALDO -
Questi è un Montecchi,
zio, nostro nemico;
un furfante, venuto qui a
dispetto,
per beffarsi di questa nostra
festa.
CAPULETO -
Il giovane Romeo?
TEBALDO -
Sì, proprio lui,
quel furfante del giovane
Romeo.
CAPULETO -
Calma, nipote mio. Lascialo
stare.
Si conduce da vero gentiluomo;
e, per vero, Verona vanta
in lui
un giovane virtuoso e di bei
modi;
né io permetterei che
in casa mia,
per tutto l'oro di questa
città,
gli sia recata alcuna umiliazione.
Perciò sta' calmo.
Non te ne occupare.
È un ordine, e se tu
vuoi rispettarlo,
fa' buona cera, smetti l'aria
truce,
che non s'addice proprio ad
una festa.
TEBALDO -
S'addice, invece, eccome,
quando tra gli ospiti c'è
un tal furfante!
Non lo sopporto.
CAPULETO -
E devi sopportarlo,
invece, giovanotto! Devi,
ho detto!
Chi è il padrone, qui,
sei tu o io?
Non lo sopporta, lui!... Ti
guardi Iddio
dal creare una rissa tra i
miei ospiti!
Vuole alzare la cresta, come
il gallo!
Vuol far, come si dice, la
bravata!
TEBALDO -
Ma, zio, è una vergogna!
CAPULETO -
Ovvia! Ovvia!
Ragazzo prepotente! E che!
Scherziamo?
È uno scherzo che può
costarti caro.
So quel che dico: tu vuoi
contrariarmi.
Hai scelto proprio il momento,
perdio!
(Ai danzatori)
Bene, bravi figlioli!...
(A Tebaldo)
Un insolente,
ecco che cosa sei. Va' e sta'
buono,
altrimenti...
(Ai servi)
Più luce, fate luce...
(A Tebaldo)
E vergognati: e se non fai
giudizio,
bada che son qua io...
(Ai danzatori)
Su, su, ragazzi,
qui ci vuole un po' più
d'animazione!
TEBALDO
- Questa pazienza imposta
con la forza,
che si scontra con l'ira più
sfrenata,
mi fa fremere tutto. Me ne
vado.
Però questa sfacciata
intromissione
che par che attiri qui tanta
dolcezza
si muterà in amarissimo
fiele!
(Esce)
ROMEO -
(A Giulietta, prendendole
la mano)
Se con indegna mano
profano questa tua santa reliquia
(è il peccato di tutti
i cuori pii),
queste mie labbra, piene di
rossore,
al pari di contriti pellegrini,
son pronte a render morbido
quel tocco
con un tenero bacio.
GIULIETTA -
Pellegrino,
alla tua mano tu fai troppo
torto,
ché nel gesto gentile
essa ha mostrato
la buona devozione che si
deve.
Anche i santi hanno mani,
e i pellegrini
le possono toccare, e palma
a palma
è il modo di baciar
dei pii palmieri.
ROMEO -
Santi e palmieri non han dunque
labbra?
GIULIETTA -
Sì, pellegrino, ma
quelle son labbra
ch'essi debbono usar per la
preghiera.
ROMEO -
E allora, cara santa, che
le labbra
facciano anch'esse quel che
fan le mani:
esse sono in preghiera innanzi
a te,
ascoltale, se non vuoi che
la fede
volga in disperazione.
GIULIETTA -
I santi, pur se accolgono
i voti di chi prega, non si
muovono.
ROMEO -
E allora non ti muovere
fin ch'io raccolga dalle labbra
tue
l'accoglimento della mia preghiera.
(La bacia)
Ecco, dalle tue labbra ora
le mie
purgate son così del
lor peccato.
GIULIETTA -
Ma allora sulle mie resta
il peccato
di cui si son purgate quelle
tue!
ROMEO -
O colpa dolcemente rinfacciata!
Il mio peccato succhiato da
te!
E rendimelo, allora, il mio
peccato.
(La bacia ancora)
GIULIETTA -
Sai baciare nel più
perfetto stile.
NUTRICE -
(È stata ad osservare
da lontano, poi s'avvicina)
Tua madre vuol parlarti, padroncina.
ROMEO -
Chi è sua madre?
NUTRICE -
Ebbene, giovanotto,
è la padrona qui di
questa casa;
una buona signora, saggia
e onesta;
e la figliola, quella damigella
con cui discorrevate poco
fa,
gliel'ho allattata ed allevata
io.
E quell'uomo che saprà
fare tanto
da prenderla per moglie, giuraddio,
ne avrà dei bei sonanti
quattrinelli!
(Si allontana con Giulietta)
ROMEO -
(Tra sé)
Ella è una Capuleti!...
Ah, duro prezzo
ch'io sarò tratto a
pagare per questo!
Do in pegno la mia vita a
una nemica!
BENVOLIO -
Usciamo, adesso, via!
Il meglio della festa l'abbiam
visto.
ROMEO -
Ho paura che sia proprio così.
Più stiamo e più
ne va della mia pace.
CAPULETO -
No, no, signori miei, non
ve ne andate!
Abbiamo preparato uno spuntino
per stare ancora un poco in
allegria...
Volete proprio andare?...
Grazie a tutti,
allora, grazie, nobili signori,
e buona notte.
(Ai servi)
Recate altre torce!
Allora andiamo, si va tutti
a letto.
Oh, perbacco, s'è fatto
molto tardi!
Me ne vado a dormire dritto
dritto.
(Escono tutti tranne GIULIETTA
e la NUTRICE)
GIULIETTA -
(Indicando uno degli ospiti
che sta uscendo)
Vien qua, nutrice. Chi è
quel signore?
NUTRICE -
È il figlio erede del
vecchio Tiberio.
GIULIETTA -
E l'altro che sta uscendo
dalla porta?
NUTRICE -
Mi sembra... sì, è
il giovane Petruccio.
GIULIETTA -
E quell'altro che esce dietro
a lui,
e non ha mai ballato?
NUTRICE -
Non lo so.
GIULIETTA -
Va' a domandargli il nome.
Se è sposato,
la tomba sarà il mio
letto di nozze.
NUTRICE -
Il suo nome è Romeo,
ed è un Montecchi,
unico figlio del più
gran nemico
di tua famiglia.
GIULIETTA -
O unico mio amore,
scaturito dall'unico mio odio!
O sconosciuto, troppo presto
visto
e troppo tardi, ahimè,
riconosciuto
per quel che eri. O amore
prodigioso,
ch'io debba amare un odiato
nemico!
NUTRICE -
Che è? Che vai dicendo?
GIULIETTA
- Nulla, nulla.
Son versi da me appresi poco
fa
da uno che ballava insieme
a me.
VOCE DI
DENTRO - Giulietta!
NUTRICE -
Ecco, veniamo. Su, Giulietta.
A nanna. Sono andati tutti
via.
(Escono)