L’immagine svela il grottesco per una iconografia della danza prima della danza

Corrado Pani
Teatro e Storia, vol. 25, 2004. pp. 41-53

La storiografia della danza europea tra Settecento e Ottocento ferma la sua attenzione sulle potenziali riduzioni geometriche dell’arte: le linee disegnate dal coreografo, le figure inventate dai ballerini vengono troppo frequentemente ridotte a meri schemi motori. Diviene simbolo dell’arte un corpo appiattito, bidimensionale, disegnabile secondo regole geometriche. Ora si tenta di definire una nuova figura, ora si relazioni nomi di attitudini o espressioni sentimentali e passionali corrispondenti. Ne perde il corpo stesso, irrigidito nello schema, percepibile esclusivamente attraverso la notazione coreografica – le posizioni dei piedi, lo sviluppo dei passi sul palcoscenico ora in linea retta, ora in linee composite.

Poche volte si è tentato di dare alla bidimensionalità delle linee disegnate dal corpo la rotondità del ballerino in scena, di sostituire allo schema geometrico la pittura, la scultura, il bassorilievo, gli attributi di corpo e corporeità. Questa mancanza ha partorito i fantasmi della disciplina: si afferma che la danza è episodio spettacolare estemporaneo, labile perché imposta i valori attraverso cui si costruisce nel movimento, nell’esecuzione rapida ed efficace, nella mimata azione pantomimica, improvvisata o, raramente, codificata. «Un’arte bidimensionale, agita contemporaneamente nello spazio e nel tempo e fortemente finalizzata alla comunicazione estetica»1 è stato detto; un’arte tridimensionale, un corpo che pur disegnando sul palcoscenico piatti percorsi e linee di movimento, non nega, ma esalta, la sua rotondità, la fisicità in azione, la misurazione dello spazio scenico orizzontale e verticale. Se così non fosse essa perderebbe anche, in linea teorica, il valore antropologico di «vita innalzata a un grado più elevato e intenso»2, perché sarebbe pura forma geometrica codificata e non più corpo che la vive o interpreta e solo poi la disegna.

Il tentativo di riconferire al corpo la sua dimensione nello spazio e nel tempo non necessità delle informazioni reperibili su questo o quel ballerino, semmai è una rotondità che passa dal ballerino al mondo attorno al quale la sua attività artistica ruota, cresce, si evolve sino a farne un eroe della scena, un eroe acrobatico, un eroe dal corpo espressivo. E che impossibilità ermeneutiche vi siano è sin troppo ovvio e ripetuto: non giova nascondersi dietro l’estemporaneità della manifestazione danzata. Sarebbe come farlo per il teatro, per le performance in genere, per tutte le mere occasioni spettacolari che via via segnano il percorso dell’uomo nell’arte scenica. Infine sarebbe, per lo storico, porsi di fronte all’oggetto con una forma mentis che esclude in partenza qualsiasi soluzione, almeno quando una soluzione sia oggettivamente possibile. La storia della danza non si costruisce sui modelli, sugli stereotipi psichici che guidano ora l’una ora l’altra ricerca: si costruisce sul corpo del ballerino, sul suo formarsi, sulla contemporaneità nella quale si struttura in movimento e perviene al successo o all’insuccesso, sulle innovazioni (e sugli archetipi gestuali che le hanno rese tali), sulla contingenza come sul futuro dell’arte.

Quasi tutte le storie della danza e del balletto hanno scelto di spiegare il significato del corpo danzante nello stesso modo in cui un amministratore entusiasta avrebbe ammirato lo spettacolo […]. Questa storia rovescia la prospettiva tradizionale […]. Tutta la danza come una forma di lavoro fisico e i ballerini come operai qualificati3.

Così Susan Leigh Foster nell’introduzione di Coreografia e narrazione. Mettere dunque al centro della speculazione il lavoro del ballerino su se stesso, quasi a richiamare nella ricerca il metodo stanislavskiano, operazione ermeneutica che tuttavia non esclude il commento ammirato dei contemporanei: l’esaltazione di una interprete a eroina o divinità è anche il riconoscimento delle sue capacità tecniche ed espressive ed è infine testimonianza di una tridimensionalità «altra» dalla tecnica e dal lavoro riconoscibile del ballerino.

 Analizzare la danza attraverso le immagini è operazione complicata4 – ma non impossibile – che può generare fraintendimenti rischiosi, perché si imposta una ricerca in cui accanto all’ermeneutica verbale ne coesiste una visiva: il racconto del ballo tende a strutturarsi per immagini e l’immagine di quel racconto – quando c’è – va riunita al resoconto verbale.

L’immagine è il risultato visibile della sensibilità di colui che la produce, del modo con cui l’incisore o il pittore hanno voluto rivivere e rivedere le abilità acrobatiche del ballerino settecentesco come della diva ballerina ottocentesca. Al contempo l’immagine rende in tableau ciò che immobile non era: fissa la posizione o l’attitudine arbitrariamente, ne esclude il movimento.

Può dunque l’iconografia della danza considerarsi disciplina scientifica? Può essa essere uno strumento rilevante e veramente nuovo? Può esserlo solo quando l’immagine non sia acquisita appunto come documento privilegiato e ne vengano rivalutate al contempo le potenzialità interpretative e i limiti oggettivi. Accettare le immagini per una storia della danza vuol dire accettare il contesto in cui l’immagine è stata prodotta, relazionare il soggetto dell’immagine allo spettacolo di riferimento o alle tecniche di riferimento come alle attività teatrali affini; vuol dire, infine, considerare come elementi paritetici il prodotto iconografico, il produttore e l’oggetto dipinto. Significa dapprima distinguere e poi solo confrontare le immagini che corredano i trattati di danza da quelle che arricchiscono i primi giornali illustrati e da quelle, in ultimo, che si presentano come puri capricci pittorici o reminiscenze personali, sognate oppure reinventate (ciò valga ad esempio per la schiera dei discepoli di Watteau).

Nella prima tipologia documentaria effettivamente c’è poco di discutibile. I trattati mostrano, una dopo l’altra, le immagini, che a loro volta sono semplicemente disegnate per chiarire visivamente ciò che la parola legittima: visualizzano il contenuto e fissano la tecnica esecutiva (le cinque posizioni, anche nella variante delle «false posizioni», o come presentarle). In molti di essi la danza è dunque il risultato di una mescolanza tra l’arte e le buone maniere: una sorta di galateo strutturato sulla commistione tra danza ed eleganza di portamento e movimento. I balli vi appaiono come linee tratteggiate in uno spazio che non può non essere che quello della sala da ballo aristocratica e solo in seguito del palcoscenico. A partire dai primi anni del Settecento i trattati cominciano a presentarsi divisi in due sezioni: la danza così detta astratta e la danza teatrale. Le differenze con i precedenti modelli non sono percepibili poiché si continuano a disegnare i movimenti del corpo nella loro proiezione in pianta, sul palcoscenico. La rotondità del corpo è sostanzialmente esclusa dalla speculazione. Con una eccezione abbastanza significativa di cui le immagini sono documento, la Neue und curieuse theatralische Tantz-Schul di Gregorio Lambranzi5. pubblicata nel 1716. Qui la danza astratta6 è nominata solamente nelle didascalie a margine dell’immagine. Quest’ultima è frutti visivo di una tripartizione: in alto lo spartito musicale, al centro la descrizione per immagini – anche delle maschere della Commedia dell’Arte in danza -, in basso, appunto, la breve descrizione di ciò che avviene sul palcoscenico. Non appaiono, di contro ai trattati coevi, i tratti esplicativi e geroglifici della stenocoreografia, perché l’intento è in verità quello di rendere visivi un ballerino teatrale, un corpo d’attore che danza con il proprio costume – di conseguenza con gli stilemi recitativi che quella maschera consegna al corpo che la indossa -, una scena che contiene il suo movimento: un ballerino che ha una funzione teatrale. La volontà dell’autore di non scrivere secondo le regole della coreografia, spiegata come necessità di visualizzare costumi e scena, può rispondere in verità ad altre esigenze. La comprensione di ciò che rende il corpo del ballerino grottesco non risiede solo nell’esecuzione delle false posizioni – di cui la trattatistica accademica fa menzione e ne descrive le posizioni di piedi, corpo e braccia – ma in una gestualità che la notazione non esprime e che invece l’immagine rotonda evoca, tratteggia, oppure fissa in stereotipo gestuale o figurativo.

Questo primato rappresentativo e teatrale che informa sin nella struttura il trattato di danza sembra rinviare al primato nella danza della maschera dell’Arte, se lo si assume come modello da cui si genera, a partire dalla comédie-ballet di Molière, la danza teatrale, sino al primato storiografico, vero o falso, del Pygmalion di Marie Sallé del 1734. La concomitanza dell’insegnamento stampato di Lambranzi con una serie di novità che prendevano forma tanto nelle fiere parigine quanto nei teatri londinesi diviene invece il segno di un genere che, dalla maschera e dal ricordo della Commedia dell’Arte, si insinua nella tecnica dogmatica della danza apportando nuove tipologie rappresentative. Un carattere internazionale di cui si era fregiato lo stesso autore della Nuova e curiosa scuola dei balli teatrali che aveva esercitato la sua attività in Germania, in Francia e in Italia: una esperienza in cui le perfette linee del ballo nobile venivano a volte distrutte dal corpo grottesco della maschera.

Accanto all’esibizione misurata dei passi, si evidenzia dunque anche la necessità di arricchire il ballerino di tratti che non gli erano stati propri: l’espressività, la comicità la possibilità del racconto attraverso l’azione mimata e danzata del corpo. Sarebbe del tutto imprudente avvalorare l’esistenza di una forte relazione tra Lambranzi e il mondo delle fiere parigine solo perché la maschera correda il trattato. È certo che proprio la spettacolarità foraine aveva partorito una pletora di eterogenee abilità del corpo, che, rappresentate simultaneamente seppur senza alcuna relazione logica di contenuto, contribuivano alla definizione di uno spettacolo. Una trama di base era affidata agli amori e alle delusioni dei vecchi personaggi dell’Ancien Théâtre Italien, ma era intramezzata da esibizioni che si erano generate nella fiera autonomamente: la danza sulla corda, le esibizioni di saltatori e voltigeurs, il ballo7. Le immagini della Nuova e curiosa scuola dei balli teatrali non sono e non possono essere documento del rapporto tra maschera della Commedia dell’Arte e la danza e gli spettacoli dei teatrini forains: incolmabile è la sola distanza geografica, ma non cronologica, che separa il luogo della pubblicazione dai teatri parigini. Tuttavia «i rapporti tra questi due ambiti non vanno indagati secondo la logica della ricerca delle fonti, dei contatti materiali, ma nella prospettiva più ampia dei giochi intertestuali, dell’interferenza tra modelli o frames che realizzano diversamente, secondo i condizionamenti del genere a cui appartengono, gli stessi stereotipi immaginativi»8. In più in questo caso vi è il collante comune della Commedia dell’Arte, ora sotto le mentite spoglie dell’esecuzione danzata ora come recupero sui generis dei tratti peculiari del genere, come si era manifestato a Parigi pochi anni prima. Al contempo le sequenze delle illustrazioni che decorano e formano il trattato denunciano il dato saliente dell’insinuazione del racconto, sin dentro le forme della danza: la didascalia a margine spiega l’azione mimica e al contempo i passi migliori per eseguirla9.

Non così per la Commedia dell’Arte, al contrario della danza di corda, con gli esempi successivi e folgoranti delle esibizioni di Madame Saqui10, in cui il pericolo e l’equilibrio saranno gli elementi con cui costruire e visualizzare un racconto, oppure nella danza vera e propria, che comincia a sviluppare programmi letterari con la presunzione di spiegarli nello spettacolo attraverso il corpo. Come dire che i primi anni del XVIII secolo impostano i paradigmi attraverso cui diverse pratiche spettacolari si avviano verso una riconoscibile forma d’arte autonoma e che anni dopo il romanticismo svelerà al mondo nella loro piena compiutezza. La produzione di immagini si avvia repentinamente alla definizione dei tratti del ballerino e della sue «novità» artistiche: Marie Sallé11 e il corpo espressivo, le invenzioni costumistiche di Anne-Marie de Cupis (Camargo), soggetto del sogno «alla Watteau» di Nicolas Lacret.

La registrazione della pratica della fiera o dei teatri dei boulevard nella griglia del romantico venne attuata in prima istanza recuperando certa fisicità secondo modalità archeologiche, dunque reinventandole in accordo alla trasformata sensibilità: «è noto che il romanticismo si è dedicato a raccogliere insieme le immagini del passato, fino a trasformare la “reminiscenza” estetica in un elemento specifico del proprio scenario»12. Il grottesco del corpo del clown come del ballerino i cui movimenti e le cui evoluzioni rimandavano a quel mondo lontano diverranno simboli di quel recupero archeologico; nel riacquistarlo i romantici lasceranno al caso la possibilità di riconoscere in quei segni i trattai che li accomunano con pratiche cronologicamente distanti. Le immagini che ritraggono i ballerini romantici non recano in sé tracce evidenti di quel riscatto: esse fermano l’attenzione sul raggiungimento della perfettibilità tecnica. Il topos diviene dunque la punta. La ballerina con le ali di farfalla sulle spalle è ritratta in attitude poggiata sulla punta di un piede: è il segno dell’altezza e del volo nonché della raggiungibilità del vuoto assoluto a cui anche la letteratura coeva aspirava, ma è anche, in questo caso, retaggio pittorico e teatrale di un passato non tanto lontano. Tra Maria Taglioni e Fanny Essler e il mondo dei boulevard e delle fiere c’è di mezzo un vuoto in cui il grottesco aveva permeato sin nel midollo le esibizioni di ballerini notoriamente «nobili». Sin nella strutturazione del cast del corpo di ballo, soprattutto in Italia, vivevano accanto ai ballerini seri, di mezzo carattere e comici i grotteschi, come retaggio di forme spettacolari da cui in certo senso la danza aveva cominciato a svilupparsi in racconto. Il ballo e i ballerini romantici sono prodotti della polemica Angiolini-Noverre: allievi dei due maestri in un certo senso furono tutti i coreografi della generazione successiva. Nel fissare i caratteri della danza Angiolini aveva richiamato il mondo della fiera e della Commedia dell’Arte per il grottesco che, come negli analoghi teatrali Pulcinella, Pierrot e Scaramuccia, fa salti e balzi fuori metrica e salti pericolosi13. Un dipinto conservato al museo Carnavalet di Parigi ritrae Vestris in salto, la gamba destra alzata all’indietro, la sinistra che ha appena terminato la fase di slancio. Indossa un costume del tutto particolare: una sorta di calzamaglia a maniche e pantaloni corti, come per enfatizzare i tratti muscolari. C’è del grottesco nell’immagine, evocato nel tratto medesimo dell’autore anonimo del dipinto, che ritrae il ballerino con un intento fortemente caricaturale. Ci sono anche grazia e souplesse tanto apprezzate dai francesi: un caso iconografico limite in cui si stagliano nel medesimo artista due tendenze. Una reminiscenza o una fantasia del pittore oppure c’è dell’altro?

Geoffroy, in un articolo che tenta una ricognizione sulle mutazioni della danza, parlava della danza in genere e di Vestris in questo modo:

La danza cominciava a degenerare tra di noi, come spesso succede, nel momento stesso della sua più grande perfezione: si credeva di aver dato fondo a tutto ciò che essa ha di piacevole, ed eravamo ridotti alle sole difficoltà, che avvicinavano troppo quest’arte alle meraviglie popolari degli acrobati e degli equilibristi. Il farne consistere il merito in giochi di destrezza, era sicuramente disonorare e svilire la danza; poiché se non si trattasse che di forza e di difficoltà, Forioso e altri acrobati di questa risma avrebbero di parecchio il sopravvento su Vestris. Era dunque sconveniente per un ballerino compromettersi e abbandonare ciò che fa la nobiltà della sua arte, per competere in vigoria con la troupe dei Grands Danseurs di Nicolet, che non aveva rivali nei salti e nelle piroette. Vestris padre, successore di Dupré, aveva perfezionato la danza nobile e graziosa; ma Vestris figlio, non avendo per questo genere la stessa attitudine di suo padre, non poteva pretendere di superarlo, o forse anche di uguagliarlo seguendone le tracce. Tentò quindi di sostituire la grazia dei movimento col vigore del garretto, i begli atteggiamenti con i salti mortali, l’eleganza e la nobiltà dei passi con le giravolte e le piroette. Ciò che è strano, straordinario e nuovo colpisce sempre. L’apparenza di un’estrema difficoltà stupisce e soggioga i semplici, e quindi il ballerino che si slanciava in aria fece presto dimenticare quello che danzava rasoterra, ma l’altezza a cui Vestris aveva portato la danza abbassava l’arte elevando l’artista. I suoi compagni, sedotti dalla sua fulgida fama, profondevano tutte le loro forze in queste prodezze, più difficili che piacevoli, misurando, col numero delle piroette, la loro distanza da Vestris; ma questa emulazione faceva scendere a livello di saltimbanchi gli adepti di Tersicore14.

L’inafferrabile presenza dell’acrobazia fra le pieghe dell’arte decodificata dai trattati è un tratto critico della pittura e al contempo della critica letteraria o giornalistica. Così quando si dice che anche la danza romantica deve molto della tecnica sviluppata da acrobati e performer da fiera si conferma una verità che le immagini prodotte dal romanticismo a volte celano (sembrerebbe) volutamente, facendo di un simbolo – la bellezza e la leggerezza della ballerina – un tema cui guardare senza ripercorrere a ritroso le tecniche che hanno contribuito a farne crescere il mito. Vestris e Dupré erano tornati nel mondo delle fiere15 addirittura come giudici di un agone istituito tra saldatori di corda, per stimare con quale grado di perfezione eseguissero le danze in equilibrio sulla corda.

A quel mondo particolare della fiera, in fondo, dovevano la propria esistenza e autonomia artistica: la foire, poi il boulevard, poi, al contempo, il teatro inglese e italiano dei primi anni del Settecento avevano avverato il sogno dell’arte: esistere in sé, sciogliersi dalla funzione di intermezzo. L’immagine di Vestris si svela allora come spregiudicato tentativo pittorico che aspira alla nobilitazione accademica di un’arte di cui lo stesso ballerino sentiva forti le radici nella performance, nel tour de force, nell’esecuzione precisa e vertiginosa delle proprie capacità- Viene ritratto non come ballerino dell’Opéra – non ne ha i tratti e non ne rispetta l’etichetta -, ma come artista compagno di quegli artisti specializzati a non essere specializzati che popolavano le fiere e con i quali aveva collaborato.

Le immagini possono riempire o colmare i vuoti di senso lasciati dalla descrizioni letterarie. Possono confermare, come in questo caso – e accanto alla biografia dell’artista – che alla base della preparazione dell’artista c’è un retaggio di tecniche foraines; possono indurre a credere – relazionate al contesto teatrale francese e inglese contemporaneo – che almeno certe caratteristiche della Commedia dell’Arte francesizzata siano tutto sommato le radici da cui l’arte crescerà. Non è accettabile quindi il mito di una storia della danza senza immagini, perché al contrario sarebbe una storia fatta di resoconti ammirati, di stereotipi pubblicati, di descrizioni feticistiche o meramente erotiche di un corpo non agile, ma nudo: come dire una storia erotica e anedottica che racconta l’eleganza con cui la ballerina ha saputo maliziosamente mostrarsi oppure l’elenco leporelliano degli amori del ballerino. Perché ogni immagine mostra e nasconde qualcosa.

  1. Alessandro Pontremoli, Storia della danza, Firenze, Le Lettere 2002, p. 7.
  2. Curt Sachs, Storia della danza, Firenze, Il Saggiatore, 1980, p. 25.
  3. Susan Leigh Foster, Coreografia e narrazione. Corpo, danza e società dalla pantomima a Giselle, Roma, Dino Audino, 2000, p- 7.
  4. Corrado Pani, La ballerina dipinta. La danza arte femminea e l’immagine documento dell’arte, «Ariel», n. 3, 2003, pp. 135-154.
  5. Gregorio Lambranzi, Neue und curieuse theatralische Tantz-Schul (Nuova e curiosa storia dei balli teatrali), Nürnberg, Johann Jacob Wolrab, 1716. Pre una retrospettiva sulla danza di Lambranzi si vera Marianovella Fama, Le «curiose inventioni» del maestro di ballo Gregorio Lambranzi: un consuntivo della coreutica teatrale seicentesca, in L’arte della danza ai tempi di Monteverdi, a cura di Angelo Chiarle, Torino, Istituto per Beni Musicali in Piemonte, 1996, pp. 253-278.
  6. Ad «esclusione dei passi del minuetto, corrente e sarabanda che sarebbero “a mal proposito” in una danza burlesca in quanto creati per quelle nobili», si veda Marianovella Fama, Gregorio Lambranzi: un «Maestro» di ballo da Venezia a Norimberga, «Biblioteca Teatrale», n. 7, 1987, p. 69.
  7. Marcello Spaziani, Gli italiani alla «Foire». Quattro studi con due appendici, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1982. Per una retrospettiva accurata sulle forme spettacolari delle fiere parigine e sulle relazioni di quelle novità con la prima Comédie Italienne si veda Renzo Guardenti, Le fiere del teatro. Percorsi del teatro forain del primo Settecento., Roma, Bulzoni, 1995.
  8. Emilio Sala, L’opera senza canto. Il mélo romantico e l’invenzione della colonna sonora, Venezia, Marsilio, 1995, p. 183.
  9. Si veda Marianovella Fama, Gregorio Lambranzi, cit., p. 65.
  10. Paul Ginisty, Mémoires d’une danseuse de corde: Mme Sequi (1786-1866), Paris, Eugène Fasquelle, 1907.
  11. Sulle impercettibili differenze che distinguono le pose della danza nobile dalle grottesche si può confrontare, a titolo dimostrativo, il dipinto di Nicolas Lancret di Anne-Marie de Cupis (Camargo) – del tutto simile a un dipinto anonimo che ritrae Marie Sallé – con l’incisione di Johann Georg Puschner che illustra la Nuova e curiosa scuola dei balli teatrali di Lambrazi: cfr. Ivi, II-40. L’uguaglianza della posizione in cui sono rispettivamente colte ora la ballerina ora la comica dell’incisione non possono non far pensare al milieu, in cui ad esempio la Sallé era cresciuta e aveva cominciato a praticare la danza: «Figlia di attori del teatro forain e nipote di un vecchio Arlecchino, iniziò la sua carriera nei teatri della fiera e fruì di una prolungata esposizione all’uso innovatore della pantomima», si veda Susan Leigh Foster, Coreografia e Narrazione, cit., p. 57.
  12. Jean Starobinski, Ritratto dell’artista da saltimbanco, Torino, Boringhieri, 1983, p. 44.
  13. Gaspare Angiolini, Dissertation sur les ballets pantomimes del ancien, piur servere de programme au ballet del Sémiramis, Milano, Dalle Nogare e Armenti, 1773, pp. C5-D1.
  14. «Le Journal des Débats», 20 maggio 1804, cit. in John Vance Chapman, Dancer, critics and ballet masters. Paris 1790-1848, London, Goldsmith’s College, 1985, p. 25.
  15. Paul Ginisty, Mémoires d’une danseuse de corde, cit., pp. 76-78.
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