Assolo
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Coreografia | Maurice Béjart |
Musica | Iannis Xenakis |
Prima rappresentazione | Royan, Festival di Royan, Ballet du XXe Siecle, 2 aprile 1969 |
Interprete | Paolo Bortoluzzi |
L’assolo fu creato per un concerto di danza al Festival di Royan il 2 aprile 1969. Da allora non ha conosciuto soste nel suo cammino, In Italia fu visto nella primavera 1971 sia al Teatro Lirico di Milano per le manifestazioni di “Milano aperta” sia al Teatro della Pergola di Firenze nel quadro del 34° Maggio Musicale Fiorentino. Ritornò a Milano per una sola rappresentazione alla Piccola Scala il 13 marzo 1973, in occasione delle manifestazioni di Musica d’Oggi.
È poi apparso al Teatro alla Scala in uno spettacolo béjartiano nel febbraio 1974 e in un gala dell’anno seguente. Nomos Alpha è stato creato da Maurice Bejart per Paolo Bortoluzzi con questa definizione: «Due strumenti: il violoncello e il danzatore. Due strutture, l’una musicale, l’altra coreografica, allargano fino al limite massimo le possibilità di questi due strumenti». È già un pezzo celebre, passato alla storia non ricchissima dell’assolo di danza. Se si dicesse che è il pendant maschile del troppo celebre Cigno femminile ciò farebbe sorridere con ironia il caustico Béjart; caustico tutte le volte che si deve compiere, suo malgrado, un ritorno al balletto classico. E sì che la base di tutto il suo impianto tecnico è strettamente accademica; ma è il clima a essere differente nelle sue storie, raccontate e non. Qui nulla si racconta, non c’è ideologia, ma una esaltazione del corpo umano come spesso suole accadere in Béjart. Egli ci dice: «Chi danza è anche uno strumentista; lo strumento del ballerino è il corpo e si deve avere per lui la stessa cura che un violinista ha per il suo Stradivari». Le spesse e goffe calze a maglia di lana sono la custodia nella quale il danzatore suole riporre i suoi delicatissimi arti, come se vi riponesse uno strumento.
In Nomos Alpha il ballerino si accompagna ai suoni uscenti dalle percussioni e dai pizzicati di un indiavolato violoncello. Il pezzo coreografico esalta idealmente la fisicità, la bravura, la tecnica di Bortoluzzi. La dicotomia béjartiana amore-odio della tecnica classica viene qui fuori in tutta la sua chiarezza.
Nato ed educato in maniera ferrea a quella disciplina (insegnanti quali Lubov Egorova, Nora Kiss, M.me Rousanne, Volkova sono indicativi della sua formazione), Bortoluzzi, su quella base indispensabile, ha costruito un edificio dalle molteplici sfaccettature. Non c’è esperienza o influenza artistica e culturale di estrazione diversa che non abbia tentato. Per lui, prima di tutto era da evitare il gusto del decorativo fine a se stesso, della piacevolezza, della grazia melensa, della realtà zuccherosa e fiabesca, del gioco futile, della bellezza formale. Qui le pirouettes ci sono, e molte, derivate dalla più pura danse d’école, ma Bortoluzzi se ne serve per un disegno beffardo. Piacevolezza sì, ma in chiave ironica, lazzi pantomimici che sono riferimenti ottocenteschi e anche vero e proprio humour, un pizzico di sale alla Marceau, un pizzico di pepe alla Béjart, citazioni innumerevoli dal vocabolario accademico e la mistura è pronta a essere servita all’esterrefatto spettatore con il risultato di un gioco di alchimia.
Questa specie di grottesco ballettistico riesce magnificamente a Paolo Bortoluzzi, proprio per l’armonica eleganza del suo danzare («grazia e potenza», le sue doti principali secondo il critico Clive Barnes). Sono armonie disarmoniche che si profilano agli occhi dello spettatore e lo incantano al di là di ogni intento didascalico attuandosi in pura espressività visiva, contorta e sarcastica, sulla traccia dell’elaborato disegno del suo coreografo.
A cura di Alberto Soave
Fonti:
- Alberto Testa, I Grandi Balletti, Repertorio di Quattro Secoli del Teatro di Danza, Gremese Editore, Roma 1991