Lo Schiaccianoci di Amedeo Amodio con Anbeta Toromani e Alessandro Macario
DANIELE CIPRIANI ENTERTAINMENT
presenta
LO SCHIACCIANOCI
Balletto in due atti di Amedeo Amodio dal racconto
“Schiaccianoci e il Re dei Topi” di E.T.A. HOFFMANN
Direttore Alessandro Ferrari
musica di Pëtr Il’ič Čajkovskij
coreografia e regia Amedeo Amodio
scene e costumi Emanuele Luzzati
Ideazione ombre Teatro Gioco Vita
voce Gabriella Bartolomei
interventi musicali originali Giuseppe Calì
assistente alla coreografia Stefania Di Cosmo
luci Marco Policastro
Interpreti
Primi ballerini Anbeta Toromani e Alessandro Macario
solisti e corpo di ballo Daniele Cipriani Entertainment
produzione Daniele Cipriani Entertainment
con il contributo del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo
Biografia di Anbeta Toromani
Biografia di Alessandro Macario
Introduzione
LO SCHIACCIANOCI DI AMODIO/LUZZATI
Alla riscoperta del repertorio italiano
di Simonetta Allder
È Lo Schiaccianoci italiano più bello, uno dei più interessanti della storia della danza, senz’altro uno dei più incantevoli: sulle familiari note di Piotr Ilych Ciaikovsky e, con le variopinte scene e costumi di Emanuele Luzzati, Daniele Cipriani ripropone Lo Schiaccianoci di Amedeo Amodio in una lunga tournée in tutta Italia.
Lo spettacolo coincide con il 10° anniversario della scomparsa di Emanuele Luzzati che ha fatto risplendere le scene italiane e del mondo con i colori della sua tavolozza e l’arcobaleno della sua fantasia. La trama del balletto, deriva dalla novella “Schiaccianoci e il Re dei Topi” di E.T.A. Hoffmann, riscoprendone le ombre e le tinte forti spesso assenti dalle altre versioni e sottolineando il confine labile tra immaginazione e realtà. La maggior parte degli “Schiaccianoci” – a partire dalla prima versione del coreografo Marius Petipa (San Pietroburgo, 1892) – si rifanno invece all’adattamento della novella hoffmanniana da parte di Alexandre Dumas che vi introdusse quantità industriali di zucchero filato e di luci scintillanti, persino cambiando il nome della piccola protagonista da Marie a (non a caso) Clara.
In questa versione, creata per Elisabetta Terabust e Vladimir Derevianko da Amodio nel 1989 durante gli anni d’oro dell’Aterballetto di cui egli era all’epoca direttore, lo Schiaccianoci del titolo non è il prodotto di un sortilegio, bensì della fantasia di una bambina la quale (come tutti i bimbi) gioca e parla coi suoi giocattoli, facendoli vivere anche nel mondo magico dell’immaginazione il cui confine con la realtà è labile: uno schiaccianoci può benissimo essere un principe, un’ombra sulla parete può diventare un drago in quel mondo dove desiderio e paura, sogno e incubo si sovrappongono in continuazione. Una rivisitazione in chiave psicologica del balletto normalmente popolato di fate, che lascia tuttavia intatto l’elemento fiabesco poiché nulla vi è di più magico della fantasia infantile.
Lo Schiaccianoci di Amodio/Luzzati si rivolge a grandi e piccini e s’inserisce nell’ambito dell’impegno personale di Daniele Cipriani a recuperare il repertorio italiano del balletto della seconda metà del ‘900. Questa produzione è una delle sue colonne portanti, esempio delle vette artistiche toccate quando alla robustezza del pensiero tedesco e all’anima russa che impregna la partitura, si uniscono anche l’estro e la fantasia italiani: la coreografia di Amodio, le scene e costumi di Luzzati, le “ombre”, gli inserimenti della voce di Gabriella Bartolomei volta a dare risalto all’odore sulfureo che, ogni tanto, s’insinua tra le note di Ciaikovsky.
La realtà magica
di Amedeo Amodio
Ho voluto rimanere il più possibile fedele al racconto originale di Hoffmann: la realtà vista con gli occhi di una bambina, Clara, che conserva il senso della “realtà magica”, il fantastico presente nella realtà quotidiana dove i confini tra il mondo dell’immaginario e la realtà di tutti i giorni sono così attenuati che, a volte, non sappiamo quale sia più vero e più concreto.
Il padrino Drosselmeier è artefice: inventa le ombre, muove i giocattoli dando vita ai sogni, alle paure, ai desideri di Clara. Ma è anche il difensore del mondo dell’immaginario che troppo spesso gli adulti cercano di annientare. Clara osserva gli adulti con occhio divertito, fissando i particolari come una curiosa cinepresa; gli invitati assumono aspetti grotteschi, si muovono con gesti esagerati, a volte come giocattoli arrugginiti. Mentre un semplice schiaccianoci prende vita e l’accompagna in un viaggio fantastico che l’allontana dal mondo quotidiano.
Dal sogno rientra alla realtà e ancora al sogno, la “realtà magica” continua.
Da Grimm a Hoffmann
di Emanuele Luzzati
Il nostro lavoro sembra quasi casuale: si passa continuamente da una scenografia ad una serie di illustrazioni oppure da un cartone animato alla grafica ecc., il tutto richiesto dall’esterno e su domanda dei committenti più disparati.
Eppure ogni volta sono sorpreso dal legame che unisce un lavoro all’altro: sembra che ci sia un filo che a nostra insaputa li leghi gli uni agli altri.
Così ora, appena lasciato il mondo dei fratelli Grimm (di cui ho illustrato le fiabe più note), eccomi entrare in quel mondo di Hoffmann con questo Schiaccianoci e, senza che all’inizio me ne sia accorto, approfondendo i temi constato quanto questi autori siano legati da tanti segni. Intanto per pura curiosità sono andato a leggermi le loro biografie e scopro che Hoffmann nasce nel 1876, uno dei Grimm nello stesso anno e l’altro un anno prima; entrambi tedeschi e coetanei! Entrambi scrivono racconti fantastici, anche se il loro spirito è molto differente: i Grimm si rivolgono soprattutto ai bambini apparentemente senza ironia né ambiguità, mentre Hoffmann come tutti i poeti scrive per se stesso con mille sottigliezze e a tanti livelli di lettura. Ma poi scopriamo che come tutti i capolavori anche le favole dei Grimm hanno doppi e tripli sensi, e non sono affatto così lineari come sembrano ad una prima lettura.
E così, ancora intontiti e affascinati dai tanti significati di Biancaneve, Cappuccetto rosso, e della Bella addormentata, ecco che, con Lo schiaccianoci, scopriamo un’altra storia altrettanto conturbante e ambigua, assai vicina all’Alice di Caroll, e poi scopriamo ancora che anche la musica di Čajkovskij, apparentemente facile, orecchiabile e divertente, è leggibile a tanti livelli, proprio come le storie dei fratelli Grimm: è piena di ombre, di profondità inaspettate e anch’essa ambigua, come lo era la vita del suo autore. Come interpretare visivamente tutta questa valanga di spunti fantastici? Come far leggere questo famoso balletto in maniera che ognuno ci trovi il lato più stimolante e che lo affascini maggiormente?
Come ho fatto con le fiabe di Grimm, anche qui nella scenografia, nei costumi, negli oggetti ho lavorato di “collage”, cioè mescolando stili e materie, confondendo le idee, ammiccando perfino a Mozart (nella scena dei “flautini” l’allusione a Papageno e Papagena) e con l’aiuto del Teatro Gioco Vita, specialista in ombre, contrastando continuamente con le solhouettes nere l’esplosione dei colori nelle scene esotiche o in quelle dei giocattoli.
E così con Hoffmann e con Čajkovskij ci siamo buttati in questo giuoco meraviglioso della fantasia e speriamo che ogni persona che veda questo spettacolo, bambino o adulto, semplice o sofisticato, ci ritrovi un po’ del suo mondo onirico, sia questo gioioso, o pauroso, o come piace a noi contemporaneamente allegro e conturbante, felice e triste, e torni a casa, almeno per una sera, un po’ più ricco.
Il trionfo dei sortilegi
di Vittoria Ottolenghi
Lo schiaccianoci di Amedeo Amodio, carico di gloria e di doni meravigliosi: non soltanto quelli di Natale per i due piccoli protagonisti, Maria e Fritz. Ma con il dono di idee e di incantesimi nuovi. E di uno scenografo e costumista – Emanuele Luzzati – che è quanto di più si avvicina, col suo lavoro, all’idea di un Angelo. L’Angelo che protegge un’infanzia vera o mai veramente perduta.
È stata una delle carte vincenti dell’Aterballetto. Quelle, cioè, che permisero ad Amodio di portare la Compagnia, da lui fondata e diretta per quasi diciotto anni, ai più alti veritici della qualità e della fama. Fu creato il 6 gennaio 1989, al Teatro Municipale “Romolo Valli” di Reggio Emilia. Attraverso le numerose tournées è diventata un “classico”. Un “classico” di un “classico”: doppio piacere, dunque, e doppio incanto, per uno Schiaccianoci che è, già in sé, tutto fatto di ambivalenze, doppi e doppioni, duplicati, duetti, dicotomie e duelli.
Fino dalle scene iniziali appare evidente che, accanto alle argute, affettuose visioni di Luzzati, c’è un’altra colonna portante, nello Schiaccianoci di Amodio: ed è il lavoro, vario e complesso, di proiezioni e di video, a base di “silhouettes” animate.
In questo suo Schiaccianoci, Amodio ha voluto, dunque, restare fedele al racconto originale di E.T.A. Hoffmann: Lo Schiaccianoci e il Re dei topi, scritto nel 1816. Era questo – come egli stesso ci ha detto – il modo più giusto e logico di ricatturare la “realtà magica”: quella vista con gli occhi di una bambina, Maria, “dove i confini tra il mondo dell’immaginario e la realtà di tutti i giorni sono così attenuati, che, a volte, non sappiamo quale sia il più vero e concreto”. La sua versione, come il racconto di Hoffmann, vede in Drosselmeier – il Padrino dei due bambini – “l’artefice”, ci spiega Amodio, “colui che inventa le ombre, muove i giocattoli, dando vita ai sogni, alle paure, ai desideri di Maria”. Ma non è proprio al sicuro nemmeno lui, nella sua funzione di artefice, secondo Hoffmann e perfino secondo Amodio. Vedremo che – dopo tutto – è sempre l’occhio divertito di Maria, che osserva, manipola, esce disinvoltamente dalla realtà al sogno, portandosi dietro il Padrino Drosselmeier, e non sempre seguendone i passi.
Insomma, il rapporto di guida, di artefice, di motore di Drosselmeier, rispetto alla pupilla Maria, ricorda un po’ quello tra Apollo “Musagete” e Tersicore, nel balletto di Balanchine: alla fine, non si sa bene se sia Apollo a sospingere la Musa della Danza verso i cieli della poesia, o se non sia proprio lei a sostenere il figlio di Latona nella sua scalata dalla terra all’Olimpo.
Le grandi proiezioni sui fondali e le più piccole immagini nel teleschermo – che è venuto a sostituire, in qualche modo, per i bambini di oggi, il vecchio teatrino dei burattini – che ci ha spiegato lo stesso Amodio, hanno varie valenze: servono ad arricchire l’impianto scenico e il mondo onirico infantile; servono, in qualche modo, ad “arredare” compiutamente l’ambiente surreale in cui si svolge l’azione; servono come uno dei “media” più “giusti” nel nostro tempo, per risolvere, in una dimensione diversa dal resto dell’azione, il problema della fiaba nella fiaba (e noi, quella di “Krakatuk”, la noce dura”) e quindi dello spettacolo nello spettacolo. Inoltre, spiega sempre Amodio, il piccolo “monitor” televisivo di Drosselmeier – che è poi la trasposizione del suo vecchio teatro di marionette meccaniche, nella versione coreografica originaria – permette diverse “scorciatoie” o passaggi drammaturgici veloci, senza dover ricorrere alla vecchia, polverosa pantomima. A volte, può anche anticipare alcune scene tutte sognate, come quella, sostanzialmente identica all’originale, dei “fiocchi di neve”. Il Padrino ce la introduce, con un largo sorriso da imbonitore, spargendo sul monitor un gran mucchio di coriandoli bianchi. Falsi fiocchi, che si mescolano, poi, con naturalezza, con la neve che cade a larghe falde sulle candide ballerine, nei loro tutù corti, morbidi come fitti batuffoli di ovatta.
Il fatto, poi, che non si tratti né di cartoni animati, né di immagini realistiche, in queste proiezioni e in questi video, ma di ombre (“ombre cinesi”, o piuttosto ombre di pupazzi animati che ricordano il Turco Karogöz) – è quello che ci vuole per evocare le irreali visioni delle nostre paure infantili – specie nella notte magica, che marca la vicenda, con l’immenso numero “24” della prima scena. Una notte che, oltre all’emozione per l’avvento del Bambin Gesù, a mezzanotte, e dei regali che porta con sé, è sempre carica anche di paura. Paura di un evento magico, comunque, legato a dimensioni divine, e a tutti i miti e le leggende superumane – i Magi, Babbo Natale, San Nicola, Nonno Gelo, tutti costoro, proprio per celebrare una nascita e una nascita, celebrano sempre, anche, una morte precedente – dell’anno, della natura, del sole caldo, degli innocenti a Nazareth. Nel nostro caso, c’è anche la paura del Padrino, ambiguo, onniscente, che aleggia ovunque, anche nella notte delle notti: il formidabile Consigliere di Corte d’Appello Cristiano Elia Drosselmeier, costruttore di giocattoli meccanici semoventi e riparatore di orologi di ogni tipo. (“Un Costruttore di macchine per sognare, insomma”, ci ha precisato Amodio).
A questo proposito, viene in mente che questa versione di Amedeo Amodio – e, in fondo, anche Hoffmann – non racconta soltanto la fiaba dello Schiaccianoci, e quella – interna – della “noce dura”; ma allude anche a parecchie altre fiabe-mito: quella della Bella e la Bestia di Perrault, come ha intuito Concetta Lojacono, nel catalogo relativo alla versione di Fabrizio Monteverde; quella di Alice di Lewis Caroll, alle prese con dimensioni e personaggi non-umani, ma pieni di tutti i vizi e i vezzi umani; ma anche, nell’immagine inquietante di Luzzati (L’Uomo-dai-Cento-Orologi), il dottor Coppelius (fusione dello Spallanzani e del Coppola hoffmaniani), nella fiaba della Fanciulla-automa dagli occhi di smalto, Coppelia.
I sogni dei bambini: “Sono incubi”, ci dice Amodio, “ma sono anche un gioco. Arrivano da chissà dove, inesorabili e paurosi. Oppure loro stessi se li inventano per divertimento, e giocano con loro; un po’ come accade con i cartoni animati giapponesi e i loro giganti meccanici, benefici o malefici, e con i mostri preistorici o avveniristici di Spielberg, anch’essi capaci di produrre, ora brividi di paura, ora lacrime di commozione”.
A proposito della multimedialità nella rappresentazione del mondo onirico, del costante punto di vista bifronte, o addirittura “multivision” – con sogni di sogni, di sogni – abbiamo chiesto ad Amedeo Amodio se questa complessità della struttura del suo nuovo Schiaccianoci – con un andamento a ondate, a sussulti, a scene dal taglio rapidissimo, e con mezzi e su dimensioni diverse – non possa rendere il racconto troppo complesso e difficile, per tutti, ma soprattutto per i bambini più piccoli. “Accade proprio il contrario, invece”, risponde Amodio. “Proprio i bambini, anche i più piccoli, sono i veri spettatori ideali. Non si stupiscono di nulla, soprattutto delle digressioni, degli improvvisi cambiamenti nel punto di vista, dei cambiamenti che accadono nei personaggi stessi. Del resto, anche Emanuele Luzzati non ha fermato il tempo alla fine dell’Ottocento, o in un’unica altra epoca più recente. Come nei sogni dei bambini, le persone e gli avvenimenti sono dove il nostro cervello e la nostra fantasia li mette: tra gli ussari di fine secolo, tutti bianchi, rossi e oro; o invece tra i maghi in abito da sera, alla Mandrake; o tra le poltrone-coi-nonni-incorporati, ispirate ad Alberto Savinio.
Quella magica notte dell’attesa, i regali sono già tutti lì, avvolti nelle belle carte colorate natalizie. Ma non si devono toccare. E sono immensi. Nel dormiveglia, e poi nel sonno, appaiono più grandi dei bambini e degli adulti, più grandi di tutto. Ogni cosa è abnorme e paradossale – nella fantasia di Maria, nella versione di Amodio-Luzzati. Almeno fino a che l’azione, e il sogno, restano nell’ambito di casa Stahlbaum. Ma quando si parte per l’Altro mondo, o meglio, per il mondo “Altro”, allora tutto ritrova una sua surreale armoniosità e un profumo di antico e di tradizionale; specie nei “divertissiments” del II atto (danza spagnola, danza araba, danza cinese, danza russa, l’aggiunta di un “Papageno” e due “Papagene”, con la loro gabbietta d’oro e la loro musica di Mozart, il Circo, con tre clowns acrobatici, il classico Valzer dei Fiori). Ed è giusto. Anche nel più sottile e sorprendente ripensamento della favola originaria, come è questo di Amodio, non sarebbe stato possibile – anche rispetto alla musica – privare lo spettatore di certe delizie tradizionali, che egli si aspetta e che, quasi ogni anno, il Natale gli regala.
Il momento della fiaba della noce dura che, secondo Hoffmann, il Padrino racconta a Maria, a letto ammalata, col suo adorato Schiaccianoci di legno accanto, arriva a metà del I atto. Che dice, in sostanza, questa fiaba? “Prima di tutto”, dichiara Amodio, con molta passione “dà il punto di vista dei Topi. Sono i Topi, che raccontano le loro ragioni”. Una storia, per la verità, forse deliberatamente, farraginosa e, per molti versi, oscura. È anche, è bene ricordarlo, il punto cruciale, dove convergono o da cui nascono tutte le metamorfosi: l’eroina, la bellissima principessina Pirlipat, diviene un orribile mostro, per la viscerale vendetta della Regina dei Topi, per i torti e le persecuzioni subìte. Arriva a corte con i suoi sette figli e il folto parentado, e tutto divorano e sconvolgono. Il Padrino Drosselmeier, insieme con il mago di corte, annunciano che soltanto un gheriglio della noce dura di Krakatuc avrebbe potuto ridarle la bellezza. Ma la noce doveva essere spezzata soltanto con i denti. Da chi? Naturalmente da un giovane eroe, bellissimo, l’unico capace di un simile eroismo: guarda caso, il nipote di Drosselmeier, bello ed elegante come un principe. Tutto bene, fino al momento della seconda trasformazione. Perché Madama Regina dei Topi sbuca dal pavimento e, all’improvviso, trasforma il bel giovane Drosselmeier in un pupazzo deforme con la bocca spalancata. Al posto del codino settecentesco, ha una sorta di maniglia di legno, che controlla i movimenti della mandibola: insomma è diventato uno Schiaccianoci. “Portatelo via!” gridò la principessa Pirlipat. Povero Schiaccianoci. Il suo sogno di gloria è sfumato. E la storia della noce finisce qui.
Ma la vera storia? Quella che sta dietro e dentro alla storia della Noce Dura, che a sua volta sta dietro e dentro alla storia dello Schiaccianoci? Come finisce la vera storia – secondo Hoffmann e secondo Amodio? Finisce che il brutto Schiaccianoci di legno, armato di una spada che gli impresta Fritz, il fratellino di Maria, sfida e sconfigge il Re dei Topi e la sua orda. Poi si inginocchia davanti a Maria, e la invita a seguirlo in quel “regno delle bambole”, che è poi – per ognuno di noi bambini e vecchi bambini – l’unico mondo dove è possibile essere felici e vivere i propri sogni. Questo paese è generosamente esplorato nel libretto lieve e festoso di Alexandre Dumas, in cui la storia della Noce dura si sovrappone, si schiaccia, anzi, disinvoltamente, su quella dello Schiaccianoci (così come il personaggio di Maria si sovrappone a quello della sua bella bambola, Clara, nella fiaba della noce dura). Ne viene fuori un’unica, festosa poltiglia di imperiali dolcezze natalizie. I due innamorati, avvolti da aromi di spezie e di canditi, assistono al festoso spettacolo dei “divertissiments”, creati per loro. Ma sul più bello, il sogno cessa e Maria si risveglia, ansimante, nel suo lettino.
Tutto è perduto? No. Perché anche in questa versione, come nella fiaba originale, Drosselmeier porta a casa Stahlbaum l’ultimo e decisivo regalo per Maria: la visita del suo nipotino giovinetto, identico – miracolo – al bel Nipote-Principe-Schiaccianoci del sogno. I due si guardano negli occhi, si prendono per mano. E il sogno ricomincia.
[Le foto di questo post sono di Massimo Danza]