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Coreografia | Jerome
Robbins | Musica | Frederick
Chopin | Prima rappresentazione | New
York, State Theater, New York City Ballet, 8 maggio 1969 | Interpreti | Alicia
Kent, Sara Leland, Kay Mazzo, Patricia McBride, Violette Verdy, Anthony Blum,
John Clifford, Robert Maiorano, John Prinz, Edward Villella | Costumi | Joe
Eula | Luci | Thomas
Skelton | Balletto per cinque ragazze e
cinque ragazzi su varie musiche di Chopin (studi, valzer, mazurke, un notturno
e uno scherzo) senza sviluppo narrativo. Robbins lo dedicò alla memoria
di Jean Rosenthal, la regista luci di tantissimi spettacoli di balletto di successo,
scomparsa proprio nello stesso mese in cui andò in scena Dances at a
gathering. Fu poi ripreso nel 1970 dal Royal Ballet al Covent Garden di Londra
e presentato a Spoleto per il 15° Festival dei DUe Mondi (1972, interpreti
Anthony DOwell, David Wall, Lynn Seymour, Ann Jenner, Laura Connor, Jennifer Penney,
Marguerite Porter, Michael Coleman, Carl Myers, David Ashmole). In
quell'occasione, Alberto Testa scrisse ("Il dramma", n. 7-8, 1972): «È,
in fondo, un balletto semplice fatto di cose grandi; basterebbe osservare come
introduce lo spettatore nel gioco, quasi in sordina. Una prima variazione maschile,
bella ma anche abbastanza tradizionale, di stretto stile accademico, è
seguita da un passo a due, poi da un altro,. Sembra quasi che il balletto abbia
difficoltà a prendere quota, alievitare, poi si espande, arrivano altri
giovani, passi a tre, a quattro, a cinque, il quadro si anima, le cinque coppie
si abbandonano a balzi, a giri vorticosi, le ragazze volano nelle braccia dei
loro partners, spariscono, inghiottite dalle quinte, riappaiono, si ritrovano
e si lasciano. È anche sorprendente come Robbins abbia saputo evitare,
in 63 minuti di uno spettacolo dalla partitura coreografica improntata al più
alto tecnicismo, di ardua esecuzione al limite del possibile (soprattutto nel
sincronismo visivo), ogni forma di ostentazione virtuosistica e il rischio di
una saturazione. Il pubblico infatti non se ne accorge, beve tutto di un fiato
un dolcissimo, inebriante liquore e non si accorge intanto di libare danza, una
festa in suo onore, combinata, come si diceva, senza ostentazione, con assoluta
semplicità; tocca il sentimento ed elude il sentimentalismo, ripercorre
la poesia delle piccole cose, sfiora lo humour più sottile e non disdegna
uno spleen a fior di pelle, come nel finale semplicissimo, fatto di piccolissimi
gesti, di sguardi, di sospensioni, di silenzi e di pause. La riunione è
finita, ci si inchina, si ringrazia, il sogno è finito, pronto a ricominciare
perché i personaggi di Robbins hanno bisogno di sognare, come ogni comune
mortale». |