Madrigale in forma
scenica | Testo | Tratto
dal poema cavalleresco "La Gerusalemme liberata" di Torquato Tasso | Musica | Claudio
Monteverdi | Prima rappresentazione | Venezia,
Palazzo Mocenigo (San Stae), Carnevale 1624 | Claudio
Monteverdi compose la musica di questo madrigale sul testo del XII canto della
"Gerusalemme liberata". Il madrigale si svolgeva in forma rappresentativa,
in quanto il testo letterario era cantato dalle voci di Tancredi, Clorinda e il
narratore, a loro volta doppiate, nell'azione scenica, da due danzatori-mimi.
Balletto melodrammatico, definito dallo stesso autore "madrigale guerriero
e amoroso", fu commissionato dalla famiglia del conte Girolamo Mocenigo.
L'organico degli strumenti comprendeva quattro viole, un contrabbasso e un clavicembalo.
La composizione fu poi inserita nei Madrigali guerrieri e amorosi pubblicati
a Venezia nel 1638. La prima audizione a Palazzo Mocenigo nel Carnevale del 1624
suscitò notevole impressione nella nobiltà presente, come raccontano
le cronache dell'epoca, specie nel finale, ("S'apre il ciel: io vado in
pace"), in cui la musica sembra schiudersi nell'anima di Clorinda ormai
dipartita. La storia ci racconta che, davanti a Gerusalemme
assediata dai crociati, Tancredi, guerriero cristiano, incontra Clorinda, musulmana,
che ama in segreto. Poiché quest'ultima si presenta con l'elmo e la corazza,
egli non la riconosce e la sfida a duello. L'impatto è decisivo ed anche
mortale per Clorinda che, caduta ferita, chiede di essere battezzata. Tancredi
raccoglie l'acqua da un ruscello che scorre vicino, le dà il battesimo,
ma nel toglierle l'elmo, le abbondanti chiome di Clorinda si riversano su Tancredi,
il quale non può far altro che raccogliere le ultime parole di lei che
lo perdona. Fra i numerosi adattamenti dell'opera, sia
in forma strumentale (Alceo Toni, Giorgio Federico Ghedini) che in forma scenica,
ricordiamo la versione proposta dal Teatro Carignano a Torino, nel 1944 e quella
di Susanna Egri al Teatro la Fenice di Venezia, nel 1959. Riportiamo
di seguito un brano tratto dal XII canto della "Gerusalemme liberata": Tancredi
che Clorinda un uomo stima vuol ne l'armi provarla al paragone. Va girando
colei l'alpestre cima ver altra porta, ove d'entrar dispone. Segue egli
impetuoso, onde assai prima che giunga, in guisa avvien che d'armi suone ch'ella
si volge e grida: - O tu, che porte, correndo sì? - Rispose: - E guerra
e morte. - Guerra e morte avrai: - disse - io non rifiuto darlati, se la
cerchi e fermo attende. - Ne vuol Tancredi, ch'ebbe a piè veduto il
suo nemico, usar cavallo, e scende. E impugna l'un e l'altro il ferro acuto, ed
aguzza l'orgoglio e l'ira accende; e vansi incontro a passi tardi e lenti quai
due tori gelosi e d'ira ardenti. Notte, che nel profondo oscuro seno chiudesti
e nell'oblio fatto sì grande, degne d'un chiaro sol, degne d'un pieno teatro,
opre sarian sì memorande. Piacciati ch'indi il tragga e'n bel sereno a
le future età lo spieghi e mande. Viva la fama lor, e tra lor gloria splenda
dal fosco tuo l'alta memoria. Non schivar, non parar, non pur ritrarsi voglion
costor, ne qui destrezza ha parte. Non danno i colpi or finti, or pieni, or
scarsi: toglie l'ombra e'l furor l'uso de l'arte. Odi le spade orribilmente
urtarsi a mezzo il ferro; e'l piè d'orma non parte: sempre il piè
fermo e la man sempre in moto, né scende taglio in van, ne punta a voto. L'onta
irrita lo sdegno a la vendetta, e la vendetta poi l'onta rinova: onde sempre
al ferir, sempre a la fretta stimol novo s'aggiunge e piaga nova. D'or in
or più si mesce e più ristretta si fa la pugna, e spada oprar
non giova: dansi con pomi, e infelloniti e crudi cozzan con gli elmi insieme
e con gli scudi. Tre volte il cavalier la donna stringe con le robuste braccia,
e altrettante poi da quei nodi tenaci ella si scinge, nodi di fier nemico
e non d'amante. Tornano al ferro, e l'un e l'altro il tinge di molto sangue:
e stanco e anelante e questi e quegli al fin pur si ritira, e dopo lungo
faticar respira. L'un l'altro guarda, e del suo corpo essangue su'l pomo
de la spada appoggia il peso. Già de l'ultima stella il raggio langue sul
primo albor ch'è in oriente acceso. Vede Tancredi in maggior copia il
sangue del suo nemico e se non tanto offeso, ne gode e in superbisce. Oh
nostra folle mente ch'ogn'aura di fortuna estolle! Misero, di che godi?
Oh quanto mesti siano i trionfi e infelice il vanto! Gli occhi tuoi pagheran
(s'in vita resti) di quel sangue ogni stilla un mar di pianto. Così
tacendo e rimirando, questi sanguinosi guerrier cessaro alquanto. Ruppe
il silenzio al fin Tancredi e disse, perchè il suo nome l'un l'altro
scoprisse: - Nostra sventura è ben che qui s'impieghi tanto valor,
dove silenzio il copra. Ma poi che sorte rea vien che ci nieghi e lode e
testimon degni de l'opra, pregoti (se fra l'armi han loco i preghi) che'l
tuo nome e'l tuo stato a me tu scopra, acciò ch'io sappia, o vinto o
vincitore, chi la mia morte o vittoria onore. - Rispose la feroce: - Indarno
chiedi quel c'ho per uso di non far palese. Ma chiunque io mi sia, tu innanzi
vedi un di quei due che la gran torre accese. - Arse di sdegno a quel parlar
Tancredi e: - In mal punto il dicesti; (indi riprese) e'l tuo dir e'l tacer
di par m'alletta, barbaro discortese, a la vendetta. Torna l'ira ne' cori
e li trasporta, benchè deboli, in guerra a fiera pugna! Ù'l'arte
in bando, ù'già la forza è morta, ove, in vece, d'entrambi
il furor pugna! O che sanguigna e spaziosa porta fa l'una e l'altra spada,
ovunque giugna ne l'armi e ne le carni! e se la vita non esce, sdegno tienla
al petto unita. Ma ecco omai l'ora fatal è giunta che'l viver di
Clorinda al suo fin deve. Spinge egli il ferro nel bel sen di punta che
vi s'immerge e'l sangue avido beve; e la veste che d'or vago trapunta le
mammelle stringea tenere e lieve, l'empiè d'un caldo fiume. Ella già
sente morirsi, e'l piè le manca egro e languente. Segue egli la vittoria,
e la trafitta vergine minacciando incalza e preme. Ella, mentre cadea, la
voce afflitta movendo, disse le parole estreme: parole ch'a lei novo spirto
addita, spirto di fè, di carità, di speme, virtù che
Dio le infonde, e se rubella in vita fu, la vuole in morte ancella. - Amico,
hai vinto: io ti perdon... perdona tu ancora, al corpo no, che nulla pave, a
l'alma sì: deh! per lei prega, e dona battesmo a me ch'ogni mia colpa
lave. - In queste voci languide risuona un non so che di flebile e soave ch'al
cor gli scende ed ogni sdegno ammorza, e gli occhi a lagrimar invoglia e sforza. Poco
quindi lontan nel sen d'un monte scaturia mormorando un picciol rio. Egli
v'accorse e l'elmo empiè nel fonte, e tornò mesto al grande ufficio
e pio. Tremar sentì la man, mentre la fronte non conosciuta ancor
sciolse e scoprio. La vide e la conobbe: e restò senza e voce e moto.
Ahi vista! ahi conoscenza! Non morì già, ché sue virtuti
accolse tutte in quel punto e in guardia al cor le mise, e premendo il suo
affanno a dar si volse vita con l'acqua a chi col ferro uccise. Mentre egli
il suon de' sacri detti sciolse, colei di gioia trasmutossi, e rise: e in
atto di morir lieta e vivace dir parea: "S'apre il ciel: io vado in pace". |